La due diligence sui conti pubblici prima o poi qualcuno la farà. Per ora bisogna accontentarsi di quello che dice la Commissione europea, di quello che ha detto la Corte dei Conti, e magari (sarebbe interessante) dei riferimenti in base ai quali Giarda, Bondi e Cottarelli hanno condotto la spending review.
Non c’ è niente da attendersi, invece, dalle dichiarazioni risentite dell’ex ministro Saccomanni (quello che “se sapevo che era solo per dieci mesi non avrei accettato”). E’ una questione di codici linguistici. E’ difficile capirsi, infatti, fra chi gioca perennemente di rimessa, e di volta in volta si affanna a cercare minime coperture per minime esigenze (l’Imu sulla prima casa piuttosto che la compensazione di mancati introiti comunali), e chi gioca invece all’attacco.
Renzi gioca all’attacco. Non ha paura di dichiarare che per tagliare il cuneo fiscale ci vogliono dieci miliardi (non gli avanzi di ragioneria che di settimana in settimana raggranellava Saccomanni), e per pagare i debiti della Pubblica Amministrazione ce ne vogliono settanta.
I paragoni con Napoleone si sono sprecati troppo perchè valga la pena di ricordare quello che deve fare l’Intendenza. E può darsi benissimo che Waterloo sia dietro l’angolo. Ma un leader politico nè deve pretendere garanzie di durata, nè deve minimizzare gli obiettivi che si pone. Deve invece offrire una visione al paese che intende governare e dare una prospettiva al consenso che chiede (senza il quale, alla fine, non può neanche chiedere sacrifici ai cittadini).
Il problema, però, non è che Saccomanni è un “tecnico” mentre Renzi è un “politico”. Il problema è che i due non condividono la stessa diagnosi dei mali del paese. Chi usa il cacciavite pensa che non c’è nulla da cambiare, e che basta far funzionare meglio gli ingranaggi, Ma chi vuole risvegliare imprenditori in letargo, rimuovere strettoie corporative, ridefinire criteri di equità, difficilmente può fare a meno della spranga.