I numeri sono duri più delle pietre: nel 2011 in Italia le condanne definitive per reati fiscali sono state 156, in Germania 8.601. E’ un trend che dura da decenni. Mani pulite ha cancellato la prima Repubblica, ma la giustizia penale non è riuscita neppure a scalfire l’enorme evasione fiscale che è una delle causa principali dei problemi economici e finanziari del nostro paese. Eppure le leggi ci sono e sarebbe sufficiente riportare il reato di falso in bilancio alla sua vecchia formulazione per avere strumenti di contrasto ancora più efficaci.
Il nostro è uno strano paese: si batte e ribatte da anni sui costi della politica, si fanno i conti dei risparmi che deriverebbero dalla eliminazione delle Province e dalla trasformazione del Senato in “Camera Gratuita delle Autonomie”, in un nuovo circo mediatico giudiziario che impegna la Guardia di Finanza, le Procure e i Tribunali in un enorme lavoro di accertamento per sanzionare un malcostume che dovrebbe essere eliminato per ragioni di “valore” e non certo per il risparmio che deriverà alle casse dello Stato dalla sua riduzione. Per cui un tema di primaria importanza istituzionale e politica corre il rischio di essere trasformato in una banale questione di repressione da un lato e di spending review dall’altro, impedendo ai cittadini di capire fino in fondo quali ne siano le cause e quali ne debbano essere i rimedi. Di ricordare ad esempio che l’aumento del costo della politica ha avuto la sua causa prima nell’attuazione “viziosa” del modello federale voluto come un mantra salvifico dalla Lega di Bossi, attuato dal governo D’Alema con la modifica del Titolo V della Costituzione, e perfezionato dal governo Berlusconi con la legge 131/2003 .
Anziché avvicinare le istituzioni pubbliche ai cittadini, quel sistema ha prodotto e continua a produrre un aumento costante della spesa pubblica, all’interno del quale il “costo della politica” è solo la punta dell’iceberg.
Il punto infatti non è solo e tanto quanto guadagnano i partiti e i loro rappresentanti, ma l’ammontare e la destinazione dei fondi pubblici oggetto delle leggi di spesa che vengono decisi da quei partiti e dai loro rappresentanti nelle varie istituzioni di cui fanno parte. Senza una profonda revisione della spesa pubblica nel suo complesso non si potrà mai uscire dalla crisi del debito pubblico, che, come prevedeva quarant’anni fa James O’ Connor, è diventata davvero ” Crisi fiscale dello Stato”.
Banalità? Può darsi: ma sono queste banalità che hanno portato il debito pubblico italiano ad un livello intollerabile. A fianco della spesa pubblica aumentata enormemente grazie alla ubriacatura federalista c’è stata una progressiva diminuzione delle entrate fiscali dovuta soprattutto alla enorme evasione tollerata nella sostanza da tutti i governi della seconda Repubblica. Con un ulteriore apparente paradosso: ad una delle più alte pressioni fiscali europee corrisponde una delle più basse raccolte d’imposte d’Europa. C’è chi paga percentuali complessive di reddito che superano il 60% e chi non paga nulla.
Il massimo della ingiustizia. A fronte della quale sembra che la gran parte del ceto politico del nostro paese si lavi l’anima con una giaculatoria costantemente ripetuta a tutti i livelli istituzionali, inserita nei programmi elettorali dei partiti e nei discorsi che si fanno dai vari pulpiti nei riti laici e religiosi della domenica mattina: la lotta all’evasione fiscale, che però non solo non è organizzata come dovrebbe, ma che è stata sostanzialmente delegata alle varie agenzie burocratiche, estranee, in ragione della loro autonomia, alla diretta responsabilità politica del governo e resa ancora più evidente dalla cancellazione del ministero delle Finanze.
Ci si dirà che il ministero si chiama ministero dell’Economia e delle Finanze e che esiste una Direzione generale che si occupa del fisco. Tutto vero: ma è vero altrettanto che il risultato dell’assorbimento delle “fisco” da parte dei ministeri dell’economia e del bilancio non ha prodotto alcun effetto sulle politiche fiscali del nostro paese e sulla loro efficacia.
Che fare? Da penalista sono consapevole che invocare una maggiore repressione dei reati finanziari senza fare null’altro non risolverà il problema. Serve una “politica criminale integrata” capace di reprimere i fenomeni di frode fiscale e di evasione, ma soprattutto di eliminare le cause che le producono. Non è questo il luogo nel quale approfondire un discorso dalle numerosissime implicazioni. Qui vorrei fare una sola osservazione, più politica che tecnica. E’ il momento di trasformare l’evasione fiscale in una questione politica di primaria importanza. Senza la consapevolezza piena e diffusa dell’effetto di complessivo impoverimento che comporta la sottrazione del pagamento del “giusto tributo” di ciascuno allo Stato l’invocazione di una maggiore severità delle pene si risolve in una delle tante giaculatorie laiche della domenica.
La questione fiscale riguarda la distribuzione del peso del mantenimento dello Stato sulle spalle di ciascun cittadino in ragione delle sue capacità economiche. E’, per usare il linguaggio di un tempo, una “questione sociale” che non può essere ridotta a mera “questione criminale”: per questa ragione deve essere risolta dalla politica che deve farsene carico in modo diretto e responsabile. Il mio è un invito al Psi di farsene carico in modo prioritario, ed il modo è, come si faceva un tempo, iniziare da uno studio “scientifico” dei problemi chiamando a raccolta i saperi necessari. Ma allora, si dirà, tutto per proporre solo un “convegno” ? Può darsi, ma da certi convegni sono uscite linee politiche e riforme: e, come diceva Michel Foucault , sapere è potere.