Il libro di recente pubblicazione “Il film della crisi. La mutazione del capitalismo” non è una storia della crisi che sta vivendo gran parte dei Paesi del mondo; non è neppure un libro di economia, nel senso che gli autori, Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, aspirano solo a formulare un contributo alla prefigurazione della “nuova etica”, giudicata necessaria per costruire una società meno esposta all’instabilità e più aperta al perseguimento di una maggiore equità distributiva. A tal fine, gli autori, “filmando” l’evoluzione del capitalismo, rendono omaggio all’Età dell’oro, ovvero a quel periodo, compreso tra la fine del secondo conflitto mondiale e l’inizio degli anni Settanta, del cui esito l’Occidente ha fruito grazie alla convergenza di due “grandi forze progressive” dell’età moderna: il capitalismo e la democrazia. La democrazia ha favorito una generalizzazione della partecipazione alle decisioni pubbliche e la diffusione delle solidarietà sociale; dal suo canto, il capitalismo ha realizzato un notevole incremento di produttività nell’uso delle risorse disponibili, tale da consentire una crescita della produzione e livelli occupazionali mai sperimentati nel passato.
Con la convergenza delle due forze progressive è stato possibile realizzare il “grande compromesso socialdemocratico”, che si è materializzatosi nel potenziamento e nella democratizzazione dell’”economia mista” e, con la realizzazione del welfare State, ha reso possibile coniugare la forte crescita dell’economia ad un aumento dell’uguaglianza sociale. L’ordine economico così instaurato si è incrinato, nel corso degli anni Sessanta, allorché i Paesi europei hanno incominciato a mal sopportare l’egemonia degli USA, i quali, pur avendo concorso a rilanciare e a stabilizzare l’economia mondiale dopo il 1945 con l’istituzionalizzazione di un sistema monetario internazionale (il gold exchange standard) fondato sul dollaro, venivano accusati di finanziare la loro politica estera attraverso l’esportazione di inflazione, dal cui controllo i Paesi che la subivano erano esclusi. Come reazione, gli USA hanno abolito la convertibilità del dollaro in oro stabilita secondo una parità fissa ed hanno premuto, in virtù delle loro posizione nel controllo della produzione petrolifera, sui Paesi del Medio Oriente, perché dessero il via a shock energetici che hanno determinato una profonda ridistribuzione della ricchezza tra i Paesi dell’Occidente (con parziale esclusione degli USA) ed i Paesi produttori di petrolio. E’ stato questo il fenomeno che ha originato l’inizio della cosiddetta finanziarizzazione, da considerarsi all’origine della crisi attuale. Gli esiti degli shock petroliferi sono stati seguiti, oltre che dal crollo del comunismo sovietico, dalla liberazione del movimento dei capitali, per merito soprattutto dei leader conservatori Ronald Reagan e Margaret Thatcher. La libertà di movimento dei capitali ha determinato una crisi del compromesso socialdemocratico, col quale la capacità regolatrice dell’economia da parte dello Stato ha subito un drastico ridimensionamento, inaugurando la nascita del capitalismo finanziario.
Ora, osservano Ruffolo e Sylos Labini, questo tipo di capitalismo, non sta più funzionando, per cui è necessario riproporre l’azione dello Stato per ridurre l’incertezza e per contrastare la tendenza distruttiva della stabilità economica e sociale dei mercati finanziari, gestiti direttamente dai privati. A tale scopo, tra le molte possibilità che si offrono allo Stato vi è il deficit-spending ed una politica fiscale volta a ridistribuire il prodotto sociale per contribuire a determinare la ripresa della domanda aggregata e l’inversione del ciclo economico. Ma per riportare la finanza al servizio di un’economia politicamente regolata per “promuovere una crescita di lungo periodo a livello globale” occorre renderla ecologicamente sostenibile, riducendo l’impatto dell’attività umana sull’ambiente. A tal fine, è necessario promuovere un processo di riconversione ecologica del capitalismo finanziario e cambiare il modello di produzione e consumo ereditato dal passato. Questa è la strada, affermano Ruffolo e Sylos Labini, per uscire dal tunnel della crisi, superando la natura quantitativa del PIL, che, allo stato attuale, rappresenta il valore monetario dei beni e dei sevizi prodotti e scambiati sul mercato. In tal modo, sarà possibile promuovere una crescita sostenibile qualificata in termini qualitativi e non più quantitativi e fondata su un più alto grado di uguaglianza e di consenso sociale.
Il punto di partenza per realizzare un modello di società alternativa alla società del capitalismo finanziario non può non coincidere con la critica che Ruffolo e Sylos Labini formulano contro quest’ultima; occorre tuttavia sottrarsi all’indeterminatezza della prospettiva di Serge Latouche, nella cui “trappola” è destino cadere quando non si assume che la sostenibilità del capitalismo dal punto di vista ecologico presuppone uno stato stazionario del sistema economico, secondo la prospettiva della sostenibilità forte di Herman Daly. La configurazione forte della sostenibilità ambientale dello sviluppo e dell’aumento del livello di benessere di questo autore implica la costanza di due fondamentali grandezze fisiche: la popolazione e lo stock del capitale complessivamente disponibile, inclusivo del “capitale umano” e del “capitale naturale”. E’ infatti solo nella prospettiva dello stato stazionario di Daly che è possibile andare oltre la società del capitalismo finanziario, con la conseguente eliminazione di tutte le sue disfunzioni, quali il continuo susseguirsi di “bolle” speculative, il sostegno di una crescita quantitativa illimitata in presenza di una continua contrazione delle opportunità di lavoro.