Spesso e volentieri in Italia si sottovalutano le analogie che intercorrono fra il mondo del pallone e la politica nazionale. E’ un curioso caso di distrazione intellettuale, in un paese in cui, da almeno vent’anni, il linguaggio semplice, quello in voga nei Bar dello Sport, ha prevalso – e di gran lunga – in Transatlantico come sulla stampa.
L’esempio più illustre viene sicuramente dalla “discesa in campo” di Berlusconi, fondatore nel 1993 di un partito che, misconoscendo la propria vocazione tradizionale in un contesto di rottura, avocò a sé una capacità movimentista degna della peggiore curva sud. Oggi si fa un gran parlare di giustizialismo, di magistratura rossa, di accanimento contro una precisa parte politica. Si dimentica il servizio reso a Di Pietro in quegli anni dai cronisti vicini al gruppo Mediaset: furono la buon’anima di Paolo Brosio, l’ Indipendente di Vittorio Feltri e gli Sgarbi quotidiani dello storico d’arte del Giornale a infervorare il clima di vendetta durante la bufera di Tangentopoli. Fra le vittime finì nel centro del mirino anche il povero Indro Montanelli, reo di essere un moderato ante litteram, allergico ai padroni e fedele ai suoi lettori.
Senza il fuoco mediatico, probabilmente la storia avrebbe seguito un corso assai diverso. L’arruolamento forzato di provocatori di professione, di esperti del contraddittorio, quelli che un tempo venivano definiti polemisti e non giornalisti, si sposò da subito con una diversa concezione del modello politico. I nomi sono importanti in un mondo in cui la forma rende perfettamente la misura della sostanza, e “Forza Italia” è sempre stato un concetto forte, al di là della sigla: esso era uno spot, un coro da ultrà, capace di perpetuare la visione manichea della contrapposizione con l’avversario, un soggetto – quest’ultimo – estraneo ai valori nazionali e dunque esule in patria. L’inno, poi, costituiva nel genere un autentico capolavoro, di gran lunga più incisivo rispetto alle meste note del postmoderno “Menomale che Silvio c’è”. In Colpo grosso Maltese, Gramellini e Corrias si sono divertiti, qualche anno fa, a riscriverne il testo, invertendo le parole e dimostrando, in tal modo, come il senso virtuoso del messaggio “evangelico” restasse quasi immutato: «Forza, futuro mio/ per sentirci più grandi/ entriamoci/ e le tue mani aperte alle mie/ energie/ per alzarci più uniti». Una finezza indecifrabile dai cantastorie alla Apicella.
Anche a sinistra si è diffuso l’approccio calcistico. Di recente Renzi ha rivendicato la battaglia all’interno del Pd, un’autentica guerra culturale volta “a prendere in contropiede il gruppo dirigente”, “per non fare melina nella partita con Berlusconi”, immaginando una sinistra capace “di giocare all’attacco” e di “fare squadra” per il bene del paese. Per grazia di Dio non siamo arrivati a sostenere che Letta sia il nuovo Batistuta, ma l’esempio del sindaco toscano non è un caso isolato: prima di lui D’Alema, Rutelli e Bertinotti si erano lasciati andare a metafore sportive degne di Italo Cucci. Qualcuno ha certamente ironizzato sulle somiglianze più marcate fra l’inquilino di Arcore ed il primo cittadino di Firenze. Si è osservato come l’Italia stia vivendo una fase di transizione, dal meneghino “ghe pensi mì” al toscano “ghe Renzi mì”, ma sono banalità che distolgono l’attenzione dalla comprensione del fenomeno. In realtà dovrebbe inquietare la triviale semplificazione del quadro politico che viene posta in essere in siffatta maniera.
Abbandonarsi alla nostalgia non serve, lo sappiamo, ma la rivisitazione storica può servire alla maturazione di un sereno giudizio critico. Ora, l’eurosocialismo di Craxi, l’eurocomunismo di Berlinguer, le convergenze parallele di Moro, l’asse laico-liberale, la costituente di Destra di Almirante e prima ancora il dissidio fra Saragat e Nenni, erano tutte elaborazioni politiche che affondavano le proprie radici in un quadro culturale sensibilmente in movimento. Il processo era chiaro: dalle idee sorgevano i programmi, poi le strategie d’azione, solo successivamente venivano gettate le linee direttrici sul piano comunicativo. Negli anni ’70 – ’80 Mondoperaio ebbe una funzione straordinaria nel dibattito culturale a sinistra, laddove la società manifestava evidenti segnali di discontinuità rispetto ad un certo modo di intendere la cosa pubblica. Oggi tutto è cambiato: la cultura somiglia ad uno stagno, la cui cifra fondante è il marketing, e su questo elemento siamo chiamati collettivamente ad una riflessione. Abbiamo giganteschi apparati finanziati dal pubblico, contenitori privi di senso che ripudiano giustamente l’approccio ideologico, salvo poi finire nel paradosso di trovarsi senza la spina dorsale di qualsivoglia identità. Partiti chiusi in se stessi, che hanno rinnegato l’approccio ortodosso dei congressi nella convinzione che il mero leaderismo potesse costituire la risposta ai problemi della società. Così il Parlamento è divenuto ostaggio di opposte fazioni che sbraitano, gridano e urlano slogan su commissione. Dalla democrazia diretta alla direzione carismatica. Bell’affare.
Sono super d’accordo con le tue considerazioni, mi permetto, solo, di aggiungere e lo sostengo anche al bar, che era un sistema di finanziamento, come ha sempre detto”Bettino”di tutti i partiti. Il silenzio di tutti i deputati, durante il suo discorso alla camera la dice alla lunga.