Nel 2012 Il centrosinistra a guida di Pierluigi Bersani e nel 2016 il centrodestra (ancora) a guida di Silvio Berlusconi hanno compiuto un analogo drammatico tentativo di far salvare il sistema politico  (concepito con i partiti intesi come soggetti trainanti)  da una figura non di politico professionale ma con forte relazionalità con il sistema politico stesso.  In entrambi i casi i due partiti di riferimento degli schieramenti  si sono affidati  ad una operazione ricognitiva e propositiva di un esponente della propria classe dirigente scelto con tre caratteri comuni: non iscritto al partito, con una storia formativa di responsabilità assunte in seno alle istituzioni, con visione economica della crisi e dell’uscita dalla crisi.

Nel 2012 si trattò di Fabrizio Barca, già presidente del Comitato per le politiche territoriali dell’Ocse, già direttore centrale di Bankitalia e direttore generale del Tesoro (successivamente anche ministro con il governo Monti), figlio di Luciano Barca (intelligenza economica del Pci di Berlinguer che non si piegò alla de-comunistizzazione della Bolognina), che fu fermato nell’ esperienza progettuale affidatagli da Bersani, dalla caduta dello stesso Bersani.  Barca  pubblicò  comunque poi, nell’aprile del 2013, un documento di prospettiva della politica di sinistra fondata sulla riqualificazione dei contenuti e dei programmi di un partito capace di ritrovare nel territorio partecipazione e valorialità.

Nel 2016 si sta trattando di Stefano Parisi, già direttore generale e capo Dipartimento economico a Palazzo Chigi poi direttore generale di Confindustria, e – prima di passare ad esperienze di impresa – direttore generale del Comune di Milano: formatosi nel Partito socialista craxiano, poi fuori dai partiti con prevalente relazionamento con il centrodestra, fino all’esperienza della candidatura al Comune di Milano, sconfitto per poche migliaia di voti dall’altro manager in lizza, Beppe Sala. Sconfitto, ma con il brillante esito  di aver  tenuto insieme una coalizione altrove gravemente esplosa rilanciando l’ipotesi di un recupero elettorale fondato sui contenuti e sulla chiarezza programmatica di un moderno e partecipato partito “liberal-popolare” articolato nel territorio.

I tratti comuni di questi pur diversi episodi ci ricordano alcune cose: che la crisi dei partiti è gravissima; che la riforma dei partiti (che hanno raggiunto l’endemico 3% di reputazione presso i cittadini italiani) è considerata impraticabile dall’interno, secondo le valutazioni di due leader (Bersani e Berlusconi) solidamente convinti del principio costituzionale della politica nazionale fondata sui partiti; che dalle istituzioni è possibile estrarre ancora classe dirigente costituzionalmente predisposta a salvare le architetture di fondo della democrazia.

Barca non riuscì nell’intento post-mitterrandiano (i circoli, il territorio, la generazione, eccetera) perché prima della conclusione di quella ricognizione la crisi del Pd trasportò via lo stesso leader che lo aveva messo in pista, e che – se avesse portato a termine il mandato – sarebbe uscito come segretario organizzativo del partito.

Parisi, per mettere al riparo il suo mandato dai siluri dei colonnelli che partono da nord a sud già nei primi giorni di mandato, riduce il suo ruolo – nella rappresentazione televisiva – ad un compito “consulenziale” condotto fuori dall’organizzazione di partito e teso alla creazione di una conferenza programmatica modello Rimini per i socialisti del 1982: allora nella formulazione di un progetto liberasocialista, qui trasferito ai percorsi virtuosi dell’asse tra la Dc e La Malfa prima del centrosinistra organico nella chiave “liberalpopolare”.

In realtà il progetto  Bersani-Barca fu eclissato dal ciclone Renzi. E solo quando avverrà, se avverrà,  il declino di quel ciclone si capirà se quel progetto ha fatto in tempo a generare un brandello di alternativa per salvare il futuro di un partito e il suo ruolo tra cultura di governo e radici sociali, oppure se quella guerra di rottamazione (avvenuta prima della ristrutturazione) ha tolto di mezzo il Pd come snodo del centrosinistra.

Il progetto Berlusconi-Parisi è al limite dei buoi scappati (7 milioni di voti andati altrove), ed  è attivato in un quadro duramente strattonato dal lepenismo razzistoide e populista (che Parisi vorrebbe togliere da ogni alleanza possibile, riducendo alla “destra inservibile” il residuo parlamentare di quella “perdita di responsabilità” degli scamiciati nordisti). Potrebbe tentare addirittura una Opa sull’ipotesi di crisi del renzismo per scompaginare l’Italia tripolare, riprendendo intanto la cambiale che una parte dell’elettorato del centrodestra ha messo in campo per favorire i 5 Stelle. Come si vede il progetto è meno di territorio, meno di elaborazione, molto più di “politica da manuale”, molto di “narrazione”, costretto a fare alla svelta prima di operare su un paziente entrato grave in sala operatoria e senza bollettini sanitari da qualche tempo.

Barca e Parisi sono due figure rispettabili che ho conosciuto bene nel tempo: con tratti di amicizia,  con cui ho diversamente collaborato, che appartengono allo stesso quadro di formazione del mio percorso. Ho solo ragioni per parlarne bene e per cercare di comprendere la loro traiettoria – per uno non chiaramente conclusa, per l’altro non chiaramente cominciata – nella stessa fiducia che si nutre dal pensare al meglio per il nostro paese. Entrambi hanno un rapporto un po’ di sorvolo con la nostra storia: uno, che non è per niente di sorvolo, per non implicarsi troppo nelle questioni ideologiche della sinistra italiana del ‘900; l’altro alla fin fine per lo stesso motivo, essendo che quelle questioni appartengono largamente a uno schieramento contro cui lui deve cercare di tessere nuove trame.

Entrambi oggi dovrebbero essere seriamente stanati circa la prospettiva della relazione con l’Europa e la scommessa del ruolo dell’Italia nel dopo Brexit. Entrambi non hanno simpatia per la capacità della società di produrre politica (e quindi per il civismo), perdendo di vista una magmatica esperienza che alla fine concede a tutti i contendenti oggi in Italia di fare, soprattutto nel territorio, maggioranze vincenti o perdenti.

Entrambi hanno una visione responsabile della politica che comporta che i mandanti delle loro  sperimentazioni devono credere fino in fondo a quel punto di vista e non al cedimento demagogico che è dietro a ogni angolo della nostra vita elettorale e parlamentare. Barca ha convissuto con il governo Monti e Parisi ha convissuto con il governo Ciampi.

Per questa ragione Barca è in panchina e Parisi – pur augurandogli il contrario – potrebbe trovarsi sulla stessa panchina dopo la sua, brillante (ne sono certo) conferenza organizzativa.