Il Pd e la coalizione guidata da Pier Luigi Bersani non sono riusciti a interpretare le due grandi aree di sofferenza sociale del nostro Paese: i “minimi”, coloro che sono ai limiti dell’indigenza o che sopravvivono grazie al sostegno delle famiglie, e il variegato ceto medio.
La rappresentazione dei primi, in una società “atomizzata”, è assai distante dal “quarto” e dal “quinto stato” del nostro immaginario. E la middle class, più composita che mai, continua a non fidarsi appieno del Pd, visto ancora come il “partito delle tasse”, pagate dai “soliti noti”. La stessa “tracciabilità”, pur fondamentale per contrastare efficacemente l’evasione fiscale, viene non di rado vissuta come un’intrusione dello Stato negli “affari” personali. Assai più accattivante è l’idea dell’ “accordo con la Svizzera”, che evoca la possibilità di stanare i “pesci grossi”, “quelli che riescono a farla sempre franca”.
Vi è poi una questione più di fondo. La suggestione della “forza tranquilla” (pur affiancata dagli slogan dell’ “Italia giusta” e del cambiamento) vorrebbe trasmettere sicurezza, solidità e serenità, ma finisce forse per porsi troppo in contrasto con l’esperienza quotidiana di milioni di cittadini, che non si sentono “forti” e nemmeno “tranquilli” e si dimenano in una selva di problemi e di difficoltà.
L’idea di socialdemocrazia suggerita da Bersani è per così dire troppo ragionieristica, incapace di delineare un orizzonte e un domani. Per certi versi essa non è né “socialista” né “democratica” (nell’accezione del termine associata nel corso delle primarie a Matteo Renzi). Le forze socialiste che altrove vincono, ora più legate alla tradizione ora più coraggiose e innovative, riescono a far intravedere dei “tratti di futuro”; almeno qualche segno di “utopia concreta”. Il Pd di Bersani sembra prospettare, in nome della concretezza, “conti in ordine” e “un’occhiata” alle questioni di giustizia sociale e di equità. Troppo poco per convincere, in un momento caratterizzato dall’indignazione e, insieme, dal disincanto.
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