La sconfitta referendaria segna l’inizio di una nuova fase di quella che ormai non è più una crisi politica – come forse era sembrato esserlo fino al 2010 – ma una crisi organica: una crisi «d’autorità», ossia una situazione in cui, come scrive Gramsci, i partiti «non sono più riconosciuti come espressione» dei gruppi sociali e si crea un contrasto tra rappresentanti e rappresentati. La classe “dirigente” cessa di essere tale e diviene classe “dominante”, ossia perde la capacità di riprodurre e trasmettere ideologicamente, all’interno della società, le condizioni del proprio dominio.
Questa crisi – il cui carattere, per definizione transitorio, non significa che essa non possa durare indefinitamente – è entrata oggi in una fase per la quale non ho saputo trovare altro termine che quello di “illegittimista”, riprendendo una differenza introdotta da Ortega y Gasset, in un breve testo del 1925 dedicato al fascismo italiano (Il potere illegittimista, in «Mondoperaio», 8-9, 2016, pp. 66-70).
Illegittimista, qui, significa una fase in cui tutti i soggetti politici sono spinti non più a cercare una propria legittimazione, ma diversamente a mantenere il vuoto di legittimazione di sé e degli altri in quanto unica condizione a disposizione per potersi affermare. Nessun partito, nessuna forza politica, oggi in Italia, si trova nelle condizioni di andare al potere in quanto legittimato dal rapporto con i suoi rappresentati, in quanto “espressione” di uno o più strati sociali. Né Renzi, né il M5s esprimono alcun “gruppo sociale”, né la loro pretesa di trovare consenso tende a produrre una propria giustificazione se non in negativo (retorica della casta, del nuovo, del “tutti a casa”): e ciò costituisce l’essenziale del loro “illegittimismo”. Essi assumono piuttosto l’assenza di legittimazione altrui come l’unica “ragione” della propria pretesa di governare: c’è un vuoto, e noi lo amministriamo.
Renzi e i 5 stelle sono due volti, in questo senso, dello stesso “illegittimismo”: le due soluzioni per assumere la mancanza di legittimazione come meccanismo di potere. L’illegittimismo renziano assume la propria mancanza di legittimazione per far credere di poterla così ricevere da chi la ha: il proprio partito, il Parlamento: non ho legittimità, e solo per questo posso essere legittimato. L’illegittimismo grillino, invece, assume la propria ed altrui mancanza di legittimità come se fosse una forma di legittimazione: non siamo come loro.
Da qui l’illusione, e l’ossessione attuale, dell’elezionismo, ossia della falsa idea che il ricorso al corpo elettorale possa costituire di per sé un principio di legittimazione politica. Ma un governo non acquista una legittimità politica perché è stato eletto, ma viene eletto perché possiede in sé una legittimità politica (Kojève). L’elezionismo scambia la causa per l’effetto: la legittimazione non è cioè una conseguenza dei voti ricevuti, ma il contrario. Si dichiara di voler andare al più presto al voto nell’illusione che ciò possa produrre effetti di legittimazione, laddove invece le elezioni, in questa situazione, non hanno altro che la funzione di de-legittimare chi perde, senza legittimare chi vince.
Le elezioni, di per se stesse, non sono affatto un meccanismo democratico, non costituiscono in alcun modo quella che i partiti attuali continuano a chiamare un’investitura “democratica” del governo. Il “principio democratico” esiste, appunto, se è un principio: principio di legittimità. Laddove però della legittimità non ne è più nulla, i “principi” democratici cessano di avere la loro ragion d’essere restando al più semplici regole. Da questo punto di vista le elezioni non risolveranno nulla, ma accentueranno la delegittimazione dei partiti e del sistema politico.
Questa fase “illegittimista” potrebbe durare per molto tempo o per pochissimo, e dar luogo a diverse soluzioni politiche, sia reazionarie che progressiste. Non possiamo saperlo. Ma se analizziamo i fatti, ciò che è destinato ad essere superato non è tanto – come si tende a dire – il soggetto politico «partito», quanto la nozione di legittimità, ossia l’idea che non esista potere se non nel suo giustificare la propria pretesa di essere obbedito.
Questa idea – che sembrava essere stata confermata dall’avvento della democrazia di massa come pratica politica di costruzione del “consenso” (anche le dittature cercano di “ingannare” le masse, di “convincerle” della bontà del loro potere, non possono imporsi con la mera forza) – va oggi abbandonata, smentita dalla realtà oltre che dalle sue debolezze teoriche. Va sostituita con quello che Spinoza aveva già individuato con il problema fondamentale di ogni filosofia politica, di ogni domanda sul potere: e che è dato dal fatto che gli uomini combattono per la loro servitù come se si trattasse della loro salvezza. Le masse non sono mai “ingannate”: hanno voluto e desiderato il fascismo.
Certo, tutto passa per i meccanismi – ideologici, economici, sociali, politici – che determinano la produzione e riproduzione di quelle passioni, e non di altre (ed è allora contro di essi che si deve anzitutto lottare). Ma ciò non ha nulla a che vedere con la «legittimazione» del potere, con l’idea che gli uomini non obbedirebbero ad un potere che non fosse, o non si rappresentasse, come legittimo. In determinate condizioni, siamo pronti ad obbedire a tutto. E’ vero: nessun potere si mantiene con la sola forza, con la sola violenza. Ma l’assenza di violenza non significa affatto la pretesa di una “giustificazione”.
Questa è la ragione per la quale nulla assicura che soltanto una “rilegittimazione” delle istituzioni e dei soggetti politici possa portare ad un potere stabile in Italia. L’illegittimismo potrebbe bene, infatti, lasciare il posto ad una nuova fase in cui il potere politico sia semplicemente obbedito, senza alcuna ragione, o proprio perché non ha alcuna ragione.
Complimenti, un intervento che fa riflettere. Non ho risposte ma semmai provo a complicare la riflessione di Tommaso Gazzolo suggerendo di andare a rivedere quanto scriveva sulla legittimità Guglielmo Ferrero. E Ortega y Gasset , che tra le altre cose scriveva che: “in una società esistono vigenze collettive, invisibili realtà, credenze comuni che determinano quell’idem sentire de re publica senza il quale una società cessa di essere tale”. Già ma qual è l’idem sentire di noi italiani? Il particolare? Tengo famiglia? e come lo si potrebbe declinare politicamente senza scadimenti ulteriori?
Potrebbe essere argomento di lavoro per la nostra rivista.