Per decenni abbiamo usato la parola “fiducia” con superficialità, senza soffermarci sul suo più intimo significato. E dopo tante disillusioni, al tempo del disincanto ci troviamo a riporre pochissima fiducia nei nostri simili. Non solo non proviamo fiducia verso i “politici” e le élite, ma poco confidiamo nel prossimo in ogni ambito della vita. Dietro ogni proposta, dietro ogni affermazione ci sembra di scorgere un “interesse”, nel senso deteriore del termine. Tutto pare ridotto a inganno o a semplice scambio.

Eppure la fiducia è un ingrediente essenziale dell’esistenza. Cosa accadrebbe, ad esempio, se ci addormentassimo senza confidare nel fatto, parafrasando David Hume, che domattina il sole sorgerà di nuovo? Che ne sarebbe di noi se non ci fidassimo più dei nostri occhi, del nostro udito, del nostro tatto, pur consapevoli che essi possono trarci in errore? E se dubitassimo, poniamo, della forza di gravità che ci trattiene a terra? Non riusciremmo più a far nulla, e in fondo perderemmo noi stessi, la nostra umanità.

Jürgen Habermas, come altri autori, intravede nel “rito” un modo per ristabilire la solidarietà e la coesione all’interno del gruppo, dopo che la capacità di comunicare attraverso simboli convenzionali della nostra specie ha sollecitato fortemente sia l’iniziativa del singolo sia la socializzazione. Nel rito e nelle pratiche di culto il riferimento non sarebbe al mondo esterno (come nella comunicazione quotidiana) bensì al “collettivo”, al fine di ristabilire quei vincoli che lo tengono unito. Chi è religioso, secondo Habermas, ancora avrebbe accesso a quella sorgente arcaica della solidarietà che i più rischiano di smarrire.

In ogni caso la cooperazione è necessaria almeno quanto la competizione per vivere in maniera accettabile. E per porci in sintonia con gli altri occorrerebbe, pur memori della lezione dei “maestri del sospetto”, provare a ritrovare la fiducia reciproca. Ecco forse uno dei compiti della politica (in senso lato) in questo inizio di secolo.