“Micromega 4/2014” riporta un confronto di idee, avvenuto tra Raffaele Simone, filosofo del linguaggio, e il direttore delle rivista Paolo Flores D’Arcais; il confronto è relativo a questioni concernenti la democrazia, con riferimento alla quale Simone afferma che essa fallisce se i principi costitutivi sui quali è fondata sono “presi troppo sul serio ed estremizzati’”; mentre Flores considera quei principi degli “ideali regolativi da approssimare asintoticamente”, per cui la percezione che la democrazia possa fallire è determinata solo dalla “rinuncia a prendere davvero sul serio quei principi”.
Da subito viene fatto di osservare che Flores ha ragione, sebbene egli riduca gli elementi costitutivi solo a “ideali regolativi” delle democrazia e non anche a principi operativi posti a presidio non tanto della regolazione delle istituzioni democratiche, quanto della loro asintotica approssimazione a quegli ideali. Per meglio evidenziare la reale logica di funzionamento della democrazia, conviene sia pure sinteticamente mettere a confronto le tesi dei due studiosi.
Secondo Simone dopo la fine del secondo conflitto mondiale l’Occidente si è abituato “gradualmente a considerare la ‘democrazia’ riconquistata come un’acquisizione permanente”. Settant’anni dopo, però, la situazione è cambiata, nel senso che da un po’ di tempo, in molti paesi, la democrazia – la sua definizione, il suo metodo, le istituzioni in cui si articola – è divenuta il bersaglio di una critica aspra, e a volte di un radicale rifiuto. Perché? Dal punto di vista teorico, la critica (o il rifiuto), secondo Simone, sarebbero determinati dal fatto che la democrazia si basa su delle “finzioni” costitutive che funzionano solo se intese come tali, mentre se prese come “principi veri” possono portare a “gravissimi eccessi”, e se gestite in modo improprio possono produrre conseguenze indesiderate.
Negli ultimi decenni sia gli eccessi che le conseguenze indesiderate si sono verificati anche per effetto di ciò che Simone chiama “fattori di contesto”, quali l’avvento di una globalizzazione delle economie nazionali sorretta da un neoliberismo senza regole, le crisi economico-finanziarie dure da superare, la formazione di oligarchie economiche di dimensioni planetarie che condizionano l’autonomia politica degli Stati, e da ultimo l’esplosione dell’immigrazione dai paesi in ritardo sulla via della crescita e della modernizzazione. Tutti questi fatti hanno indebolito le “finzioni costitutive” della democrazia, facendole correre il rischio di implodere definitivamente.
Per Simone le finzioni costitutive su cui la democrazia è fondata devono essere assunte come se fossero vere, in considerazione del fatto che sottostanno alla democrazia come metodo, regolando il comportamento di tutte le strutture in cui la democrazia stessa si sostanzia. Queste finzioni, però, “esprimono un elemento di sfida utopica”, in quanto rifiutano alcuni “nuclei di pensiero naturale” quando assumono l’uguaglianza degli esseri umani, la sovranità popolare, l’accessibilità universale alle cariche pubbliche e l’inclusione illimitata che apre il paese retto democraticamente a chiunque voglia in esso rifugiarsi, stabilirsi e lavorare.
Dinanzi alla presa di coscienza che i principi sui quali si regge la democrazia sono delle finzioni, i cittadini hanno interiorizzato diverse risposte che tendono a rinunciare al metodo democratico: in particolare il rifiuto del principio di rappresentanza e di intermediazione, per sostituirlo con forme di democrazia diretta attraverso il ricorso all’uso della Rete con la formazione di nuove soggettività politiche che rifiutano la democrazia ed il suo metodo. Concludendo, Simone pensa di poter affermare che, considerati tutti gli eccessi e le conseguenze negative delle finzioni assunte a fondamento della democrazia, il “ciclo democratico del dopoguerra” stia arrivando ad una svolta, se non alla fine: per cui allo stato attuale è plausibile aspettarsi un “nuovo ciclo” del quale, a suo parere, nessuno è in grado ora di “prevedere il segno”.
Flores non condivide la tesi di Simone, osservando che ripudiare la natura delle finzioni solo perché cariche di “utopia foriera di ‘eccessi’ e di ‘errori’” significa svilirle a “illusioni”, ovvero a una foglia di fico compensatoria, utile solo a nasconderne i limiti. Se tali finzioni sono depotenziate dall’assunto di una loro presunta distanza da “nuclei di pensiero naturale” o da “fattori di contesto”, occorre ipotizzare non già una loro mancata validità, ma una riforma del contesto inteso in senso lato (incluso l’atteggiamento dei cittadini nei confronti della democrazia), perché sia la democrazia che il suo funzionamento siano approssimati asintoticamente alla loro dimensione ideale.
Secondo Flores, per via della intrinseca fragilità che caratterizza la democrazia ed il suo funzionamento, sia l’una che l’altro hanno perciò la necessità d’essere protetti da un’educazione e da una rimozione dei difetti del contesto sociale, con il sostegno di un “ethos repubblicano onnicomprensivo” sufficiente a garantire le condizioni ottimali perché sia realizzata asintoticamente la democrazia ideale.
Posta in questi termini, la critica di Flores alla tesi di Simone ha bisogno però di alcune osservazioni integrative. Flores, limitandosi ad assumere l’intransigenza come modalità di lotta per realizzare asintoticamente la democrazia, finisce col considerare ciò che Simone considera delle finzioni come valori regolativi assoluti, mancando di considerare che la democrazia, popperaniamente intesa, è l’insieme delle regole di funzionamento della struttura organizzativa istituzionalizzata delle società aperte al pluralismo: di società, cioè, aperte a più valori, a più tradizioni filosofiche e religiose, a scale differenti di priorità di valori, a molteplici proposte per la soluzione dei problemi, alla più estesa quantità di critica, al maggior numero possibile di ideali diversi. Le società aperte al pluralismo, in quanto aperte ad una pluralità di valori, sono dunque aperte alla tolleranza del dissenso.
Per capire come il dissenso e la critica si ripercuotono sul miglioramento continuo della democrazia occorre considerare sia l’uno che l’altra, come elementi costitutivi del patto associativo originario (contratto sociale) “sottoscritto” dai soggetti che decidono di “vivere insieme”, adottando una struttura organizzativa istituzionale democratica. Ma il patto associativo non è immodificabile, in quanto la sua instabilità può essere determinata dal dissenso: per cui la propensione asintotica a realizzare la democrazia costituisce un carattere distintivo delle società democratiche: non solo perché aperte al pluralismo, ma anche perché aperte al fallibilismo. Il ché significa che quale che sia la natura del patto originario sul quale riposa una società democratica, è sempre possibile trascenderlo con un nuovo patto, emendato degli esiti di eventuali carenze educative e contestuali; in tal modo, ricorrendo situazioni di dissenso, è possibile pervenire ad un patto “più largo”, in quanto capace di coinvolgere su di esso un consenso maggiore.
In conclusione la fede nella ragione costituisce l’ethos repubblicano necessario per assumere la democrazia come un progetto aperto; sulla base di tale premessa, la democrazia presume la costruzione di una società non fondata su uno stato di natura, ma fondata su un’organizzazione socialmente e convenzionalmente costruita. In altri termini, in quanto prodotto della progettualità sociale e non di finzioni, la società democratica non costituisce una realtà data naturalmente a priori, ma esprime una realtà socialmente costruita e orientata a perseguire livelli di consapevolezza sempre più alti.
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