Il numero 3/2012 della “Rivista Italiana degli Economisti” uscita di recente ha celebrato i 150 anni dell’Unità d’Italia, dedicando una sezione speciale al problema del dualismo economico Nord/Sud, che affligge ancora oggi dal punto di vista politico ed economico il nostro Paese. Lo ha fatto pubblicando alcuni articoli su diversi aspetti che hanno caratterizzato sin dall’origine, o che caratterizzano ancora oggi, l’economia del Mezzogiorno, riguardanti l’analisi della produttività del settore agricolo, i problemi del banditismo e della criminalità organizzata nell’Italia postunitaria, il miglioramento degli standard di vita (nonostante il formarsi del dualismo), le caratteristiche assunte dall’articolazione territoriale della crescita e l’impatto della dinamica del debito pubblico sull’economia meridionale. I quattro saggi sono preceduti da un’introduzione di Michele Fratianni, il quale dedica uno dei paragrafi finali all’esposizione delle plausibili spiegazioni del fenomeno del dualismo. Ciò che sorprende è il fatto che, dopo l’esposizione delle possibili cause di uno dei problemi irrisolti del processo di unificazione nazionale, nessuna indicazione normativa e propositiva venga avanzata all’indirizzo di coloro che in futuro andranno ad assumere le decisioni volte alla soluzione dell’annoso problema. Tale indicazione sarebbe stata più che opportuna, considerando che la “speciale celebrazione” dei 150 anni dell’Unità ha avuto l’”imprimatur” dell’organo ufficiale della Società degli economisti italiani, naturale depositaria della conoscenza dei termini che caratterizzano il problema del Mezzogiorno e che dovrebbero essere posti a fondamento delle politiche pubbliche più opportune per la sua soluzione.
Fratianni, nella sua introduzione alla “special issue on: 150 Years of Italian Political Unity and Economic Dualism”, dopo aver messo in evidenza come il Paese in un così breve lasso di tempo sia passato da una condizione di Paese povero, sottosviluppato e dotato di un’economia prevalentemente agricola, a quella di Paese ricco e industriale, sottolinea la circostanza che l’evoluzione dall’una all’altra condizione ha comportato che l’Italia unita vedesse formarsi al suo interno una profonda divisione economica tra il Nord ed il Sud, inizialmente, e tra il Centro/Nord ed il Sud, successivamente. Secondo Fratianni, il fatto che maggiormente risalta è che in Italia, nonostante le migliorate condizioni economiche, le disparità reddituali a livello territoriale siano risultate persistenti e durature, pur in presenza di grandi trasferimenti pubblici. Fratianni, fra le varie spiegazioni del dualismo, ne propone tre, considerate tra le più moderne, di natura strutturale: una basata sulla diversità delle “forme capitalistiche” prevalenti nelle due aree territoriali del Paese, un’altra riconducibile alla diversa dotazione del cosiddetto “capitale sociale” ed una terza fondata sulla “qualità delle istituzioni”.
Secondo la prima spiegazione, il dualismo sarebbe da ricondursi alla prevalente presenza nelle regioni del Mezzogiorno di un’economia legata ai valori propri di un’aristocrazia terriera d’origine feudale, mentre al contrario, nelle regioni settentrionali, l’economia avrebbe fatto riferimento ai valori propri del capitalismo moderno. Per la seconda spiegazione la persistenza del dualismo economico deriverebbe dalla diversa dotazione di capitale sociale, esprimibile in termini di partecipazione della società civile al funzionamento delle istituzioni pubbliche. Per la terza spiegazione, infine, l’origine ed il perdurare del dualismo sarebbe imputabile alla qualità delle istituzioni, nel senso che, nelle regioni meridionali, gli operatori avrebbero agito solo sulla base di “incentivi individualistici” e non anche in funzione di “incentivi sociali” acquisiti attraverso un’educazione aperta ai problemi del contesto sociale; invece, nelle regioni settentrionali, gli operatori avrebbero agito in funzione di incentivi sia individualistici che sociali. In conseguenza di ciò, la debolezza delle istituzioni sociali avrebbe favorito nel Mezzogiorno il consolidarsi di regole pubbliche informali, tali da impedire la formazione di istituzioni proprie dello Stato di diritto e da consentire la continuità del sistema feudale sotto altra forma, con il prevalere del “signoreggio” sull’economia da parte di alcuni gruppi ai danni di altri. Al contrario, nelle regioni del Nord, la preesistenza di istituzioni aperte alle istanze della cultura giuridica moderna avrebbe favorito la formazione di una società civile, tale da escludere sin dall’origine dell’Unità il prevalere indiscusso di interessi particolari, per via della concorrenza resa possibile dal funzionamento di liberi mercati presidiati da regole formali condivise.
In realtà, le spiegazioni riguardanti le cause dell’origine e del persistere del dualismo economico dell’Italia, alle quali fa riferimento Fratianni, non sono diverse da quelle avanzate da tutta la tradizione meridionalistica italiana del secondo dopoguerra; anzi sono identiche, nelle loro implicazioni, sul piano delle politiche pubbliche utili alla soluzione della storica questione meridionale. Il “moderno meridionalismo” proposto da Fratianni, infatti, al pari di quello dell’immediato dopoguerra, sottolinea implicitamente la complessità del dualismo sociale ed economico delle due aree nazionali; nel senso che per il suo superamento, in assenza di spinte propulsive interne, sarebbero stati necessari, al contrario di quanto è avvenuto, interventi non riguardanti esclusivamente il solo riformismo istituzionale, oppure il solo trasferimento di risorse; essopoteva essere rimosso soltanto attraverso interventi globali, per l’attuazione dei quali sarebbe stata necessaria un’assunzione di responsabilità da parte dell’intera nazione, affrancata però dalle esigenze di pura natura elettorale. L’idea che il problema del Mezzogiorno potesse essere risolto col supporto politico e materiale dell’intera nazione italiana è stata la proposta avanzata dalla generalità dei più autorevoli rappresentanti del meridionalismo del dopoguerra, quali Luigi Sturzo, Guido Dorso, Manlio Rossi-Doria ed Emilio Sereni.
Questi meridionalisti, infatti, hanno sempre sostenuto che il problema dovesse essere risolto in presenza di un esteso autonomismo per tutte le regioni, col sostegno, però, della solidarietà nazionale, intesa come “capitale sociale” dal quale attingere le risorse politiche, culturali ed economiche necessarie. Un tale approccio avrebbe consentito di rimuovere il dualismo Nord/Sud, a condizione che le politiche d’intervento non fossero risultate condizionate dalla contraddizione che le ha sempre caratterizzate, nel senso che sarebbe stato necessario evitare l’inefficacia del succedersi degli interventi parziali realizzati; contraddizione ed inefficacia dovute al fatto che doveva considerarsi illusorio pensare di poter superare le condizioni storiche date del Mezzogiorno con il solo riformismo istituzionale, senza un’adeguata disponibilità di capitale sociale; così come doveva considerarsi illusorio pensare di poterle superare solo con i trasferimenti pubblici in assenza di un riformismo istituzionale responsabilizzante, privo del pieno sostegno dell’intera comunità nazionale.