A Valentino Parlato non mi univa solo il tabagismo (che pure è un legame forte, come tutti quelli che si stabiliscono fra minoranze perseguitate). Mi univa soprattutto l’ammirazione per il suo cortese disincanto, lo stesso che mi autorizza a compilare un necrologio partendo dal nostro comune vizio.
Lo conoscevo da quando, con Luigi Pintor, Lucio Magri e Rossana Rossanda, fece uscire nel 1969 il primo numero del “Manifesto”, il cui titolo d’apertura era “Praga è sola”: tanto sola che Jiri Pelikan, giunto fortunosamente nell’Italia dell’eurocomunismo, non trovò altro approdo che quello che gli offrì Labor con la sua piccola associazione, l’Acpol.
Negli anni ’70, poi, ci incontravamo spesso in via Tomacelli: sulle scale (visto che “Il Manifesto” stava al quarto piano e “Mondoperaio” al secondo), e più spesso nella libreria che noi avevamo aperto sul piano strada. Non per questo, però, nei primi anni ’90 il suo giornale fu tra i pochi a cantare fuori dal coro delle tricoteuses che circondavano la ghigliottina di Mani pulite: fu piuttosto per quella vocazione garantista che in pochi avevamo coltivato nel corso complicato degli anni di piombo.
Quando nei primi anni ’90 la libreria di “Mondoperaio” chiuse i battenti, furono proprio i compagni del “Manifesto” a rilevarla, forse immaginando di dar vita a una specie di staffetta: ma l’impresa non riuscì. Adesso in quei locali c’è un negozio di poltrone: quasi una metafora delle vicende della sinistra italiana a cavallo dei due secoli. Ma Valentino in quelle comode poltrone non si era mai seduto, neanche per fumarsi una sigaretta.
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