Ho già vissuto, purtroppo, sensazioni di questo tipo. Sono quelle che si accompagnano al grande silenzio che ci circonda allorquando una persona a noi cara viene a mancare.
E sono momenti in cui tutte le parole del mondo non sarebbero sufficienti a colmare un grande vuoto.
Luciano Gallino non è più tra noi. Io che lo avevo apprezzato attraverso la lettura, accanita e ripetuta, dei suoi saggi, ebbi l’onore di conoscerlo personalmente, a Napoli, in occasione della presentazione di Italia in frantumi, il cui testo autografato conservo come una reliquia.
Il suo nome resterà legato a opere di grande valore cui si accompagnava un non comune senso “morale” del lavoro. Da questo punto di vista il breve saggio Il costo umano della flessibilità rappresenterà, per sempre, la perfetta sintesi tra il rigore scientifico di un maestro e le complicanze umane che si accompagnano alla precarietà.
Addio Luciano, da oggi i lavoratori e gli uomini di buona volontà sono ancora più soli.
Luciano Gallino lo conobbi negli anni ’70, quando a Torino, con Nerio Nesi, volevamo organizzare un convegno su Adriano Olivetti. Il convegno poi non si fece: in federazione se ne diffidava, innanzitutto perchè promosso dai lombardiani, ma forse anche perchè l’utopia olivettiana non era ancora stata metabolizzata dai numerosi ex frontisti diventati autonomisti ex opere operato. Nel 1982 partecipò alla Conferenza di Rimini, e col suo intervento (che per ricordarlo pubblicheremo nel prossimo numero della rivista) contribuì – insieme con Alberoni, Martinotti e Martinelli – a descrivere quel nuovo scenario della società italiana in cui Martelli collocò l’alleanza fra merito e bisogno. Collaborai con lui anche dopo, quando, vent’anni fa, ebbi modo di occuparmi di politiche del lavoro. Negli ultimi anni si era “buttato a sinistra”, ma non è mai stato un estremista: anzi, c’è da sperare che quanti si sono avvicinati alle sue opere più di recente ne traggano alimento per discriminare il grano dal loglio nella critica al capitalismo finanziario.