Se il controllo del flusso migratorio è fondamentale per un paese che vuole evitare grossi conflitti sociali nel futuro, non meno importante, anzi decisiva, appare poi la maîtrisation del processo di integrazione culturale e politica dei migranti.
La Fondazione Leone Moressa di Mestre (http://www.fondazioneleonemoressa.org/newsite/la-precarieta-sociale-nelle-citta-italiane/), che «ha acquisito specifiche qualifiche e competenze legate allo studio del fenomeno migratorio indirizzato in maniera prevalente ai temi dell’economia dell’immigrazione», come dichiarato sul proprio sito, pubblica ora i risultati di una inchiesta molto dettagliata, della quale ci fornisce un interessante resoconto Goffredo Buccini sul «Corriere della sera» del 30 marzo. L’inchiesta, molto capillare e svoltasi su un ampio campione, incrocia una serie di indicatori in modo da ottenere infine quattro aree significative.
Fra gli indicatori utilizzati: tasso di acquisizione della cittadinanza, tasso di disoccupazione straniera, differenziale Irpef tra autoctoni e non, percentuali straniere su delitti e detenuti, livelli di servizi dedicati. Le aree che vengono delineate sono queste: inclusione sociale, integrazione economica, criminalità, spesa pubblica per l’immigrazione. Elaborando numericamente tutti i dati si ottiene il tasso di precarietà sociale (che in un certo senso è indicativo del tasso di integrazione). Se prendiamo l’area della criminalità, considerando che gli stranieri autori di delitti rappresentano una quota del 31% in Italia, si può osservare che in città come Milano, Bologna o Perugia tale tasso cresce considerevolmente (fino al 43 e al 45%); mentre a Reggio Calabria, Napoli e Palermo scende al 15%. Consideriamo ora il reddito italiani/stranieri: in Italia l’Irpef degli italiani supera di 2022 € quella degli stranieri; ma a Roma il dato è di 3157 € e a Cagliari invece di 1163 €.
Mettendo assieme tutti i dati delle quattro aree si individuano le province con alta precarietà sociale (alla crescita del numero indice – un numero che assomma più fattori negativi – corrisponde una diminuzione dell’integrazione; alla diminuzione del numero indice corrisponde un aumento del tasso d’integrazione). Se in Italia il tasso è uguale a 100, Trento, Trieste, Pavia, Piacenza, Bologna, Rieti, Cremona, Livorno si muovono fra 123 e 130, quindi tasso di precarietà superiore alla media nazionale (cioè integrazione minore). In generale tutte le città grandi del centronord superano il numero 100 (quindi c’è un tasso di integrazione più basso della media nazionale). Invece le città meridionali, da Potenza a Reggio Calabria, ottengono un tasso di integrazione più alto (numeri al di sotto di 100, compresi fra 94 e 65).
Come spiegare l’insieme? Innanzitutto le aree più sviluppate e più integrate, come l’Emilia, non erano però integrate con degli estranei ma con dei cittadini autoctoni, e ora sono aree che con più difficoltà si aprono verso chi percepiscono come possibile disgregatore di quella ottima organizzazione sociale. L’integrazione sociale è maggiore invece nelle grandi città, in genere più aperte e disponibili rispetto a piccole città o a province più appartate. Infine rimane il grosso interrogativo delle città meridionali. Davvero c’è una maggiore integrazione sociale per gli stranieri? Oppure, nella generale disgregazione che investe il sud – tra rarefazione di servizi essenziali, alti livelli di disoccupazione, propensione a fuggire all’estero – viene poco percepita la presenza di stranieri, ed essi stessi si adattano ad una realtà che sembra assomigliare a volte a quella lasciata nei paesi di emigrazione (ma solo assomigliare, perché la realtà meridionale italiana è tuttavia fornita di un reddito ben più alto che consente comunque una qualche forma di adattamento e di sopravvivenza)?
Si tenga comunque presente che «gli immigrati e i loro discendenti contribuiscono oggi in maniera significativa al rinnovo della società italiana; costituiscono l’8% della popolazione; sono il 10% degli occupati e producono ricchezza equivalente all’11% del Pil», come afferma il documento di presentazione dell’Istituto Stensen in occasione del convegno del 23 aprile a Firenze, dedicato a «L’integrazione delle comunità immigrate e l’imprenditoria straniera» (cfr. Programma del Convegno).
Come conclusione è utile ricorrere alle considerazioni della Fondazione Moressa sull’inchiesta: «Laddove si riscontrano scarsa inclusione socio-economica, forti differenze di reddito rispetto agli italiani, alti tassi di disoccupazione, alti tassi di criminalità e scarsi investimenti pubblici a favore dell’integrazione, si crea inevitabilmente terreno fertile per situazioni di disagio e conflitto. L’indice non misura dunque il rischio assoluto delle diverse città (che ovviamente dipende anche da fattori diversi: sociali, culturali e amministrativi), ma aiuta a comprendere dove gli squilibri tra italiani e stranieri sono più forti e dove possono determinare situazioni di esclusione sociale».
Per ridurre tali squilibri si impone una coerente politica di integrazione sociale, culturale e politica degli stranieri: scuola e formazione (anche per gli adulti), obbligo della conoscenza della lingua italiana (attraverso adeguati corsi di lingua), un percorso certo e definito che porti con il tempo alla cittadinanza, un sistema comprensibile di diritti e doveri: diritto alla libertà di pensiero, di opinione e di fede religiosa, diritti civili e sociali, assieme al dovere di rispettare la Costituzione e le leggi civili e penali, al dovere di pagare le tasse, di contribuire al buon funzionamento della società italiana e al rispetto di tutte le fedi religiose (valido anche per gli atei).
Mi sembra integrabile con lo studio di Diamanti-Porcellato ,pubblicato su Limes n.4 del 2007,circa i vantaggi culturali (mentalità,tradizioni) per l’accoglienza nei piccoli centri pedemontani del NordEst. Paragonabili alle aree appenniniche del Sud.