Ai tempi della prima Repubblica, quando frequenti erano le crisi di governo, altrettanto frequente, sui quotidiani, era la pubblicazione del “totoministri”: un innocuo gioco di società che – come tutti i giochi che si rispettino – finiva sempre a somma zero. Gino Giugni, che immancabilmente vi figurava come possibile ministro del Lavoro, ci scherzava su (anche se, da buon genovese, si compiaceva dell’incremento delle vendite dei suoi libri che quella pubblicità gratuita determinava).
Altri, s’intende, erano meno autoironici: ma erano quelli della sinistra indipendente, “tecnici” che già si erano benignamente degnati (come disse una volta Massimo D’Alema) di accettare i voti degli incolti elettori del Pci, e che non capivano come un governo (“degli onesti” o no che fosse) potesse fare a meno della loro competenza. Neanche fra loro, peraltro, mancava chi, come il compianto Luigi Spaventa, accettava con un sorriso di essere definito “il miglior mancato ministro delle Finanze dai tempi di Quintino Sella”.
A nessuno di loro, comunque, venne mai in mente di criticare puntigliosamente – e fin dal primo giorno – gli usurpatori che avevano occupato il posto loro assegnato nella schedina.
Ora non è più così. C’è ancora il “totoministri”. Ma sulla Repubblica del 19 aprile, per esempio, Tito Boeri apre il suo editoriale sulla riduzione del cuneo fiscale contabilizzando in “trentasei giorni, 22 ore e 20 minuti” il tempo trascorso da quando “il consiglio dei Ministri di Renzi ha varato i provvedimenti che corredano le diapositive della svolta buona proiettate il 12 marzo”: e di seguito giù sei colonne di stroncature che neanche Brunetta.
Che sia la “svolta buona” perché anche il Rottamatore rivaluti la gran bontà de’ cavalieri antiqui?
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