I missili lanciati negli ultimi mesi dalla striscia di Gaza su Israele sono tra sette e ottocento. Israele non poteva non reagire. Danni limitati dall’attrezzatura antimissilistica israeliana, che manca invece a Gaza. A Gaza si investe in missili ma non in rifugi per la popolazione. E’ nel calcolo politico di Hamas e delle sue frange estreme il sacrificio della popolazione per attirare Israele nella trappola dei crimini di guerra, a cui peraltro il governo di Israele si espone con ottusa noncuranza? Noncuranza per il proprio prestigio morale e dunque politico.
L’iniziativa di Hamas riporta in primo piano la questione palestinese, offuscata dalla sua inerzia e dal clamore degli avvenimenti circostanti, dalle “primavere arabe” alla guerra civile in Siria. Ora Hamas ha ottenuto un riconoscimento di partner di negoziato almeno per trattare una tregua, mentre Abu Mazen, malgrado la sua insistita disponibilità e anzi a causa di questa, non ha ottenuto dal governo israeliano un riconoscimento di partner. Perché Hamas e governo israeliano, irriducibili nemici, hanno un obiettivo comune: quello di rifiutare il compromesso. Hamas si presenta ai palestinesi – di Gaza e Cisgiordania – come la forza che risponde a Israele e ottiene risultati concreti: la liberazione di prigionieri in cambio del rapito Shalit, l’evacuazione degli insediamenti dalla striscia, infine la titolarità di partner negoziale, e la solidarietà di molti paesi arabi e islamici che avevano raggiunto un atteggiamento di vaga neutralità. La Cisgiordania invece, e l’Anp, che aveva più volte manifestato una disponibilità al negoziato lasciata cadere sistematicamente dal governo di Israele, continua a subire il non riconoscimento, l’imposizione degli insediamenti e l’occupazione israeliana.
In cambio del lancio di missili, Israele è costretta a regalare a Hamas la titolarità di partner negoziale. Quasi un riconoscimento statuale, negato alla Cisgiordania. Per l’inerzia diplomatica e politica di Israele ora Hamas riscuote un successo politico dai negoziati, e il suo aumentato prestigio finirà per guadagnare consensi anche nella Cisgiordania di Abu Mazen. Israele si trova di fronte alla difficoltà di invadere Gaza, per i costi economici, politici e morali che l’azione comporterebbe. Perdere uomini e donne di Tzahal sotto elezioni non è raccomandabile, mentre si è costretti a rispondere ai missili, non liberi nell’iniziativa politica. Come già nella guerra del Libano del 2006 e nell’operazione “Piombo fuso” su Gaza nel 2008-09, ancora una volta Israele si trova potenza militare priva di iniziativa politica e perciò essenzialmente reattiva in termini di forza, esposta all’iniziativa altrui. Situazione tanto più pericolosa di fronte alla minaccia atomica iraniana. Ora Hamas da sud e Hezbollah da nord (dal Libano) si vanno configurando a tenaglia, anche come agenti indiretti di una politica iraniana contro Israele.
Che cosa ha ottenuto Israele, tacitando e umiliando Abu Mazen e l’Anp, e rendendo di fatto Hamas protagonista della parte palestinese che attiva la solidarietà della “Fratellanza musulmana”, al potere nell’Egitto di Morsi, nonché l’appoggio dell’Iran, fornitore di missili Al-Fajir da 75 Km di gittata capaci ormai di colpire Tel Aviv e Gerusalemme? Ha ottenuto di scavare una più profonda divisione tra Gaza e Cisgiordania, con l’intento di far naufragare la prospettiva di uno Stato palestinese. Con la prospettiva cioè di un vicolo cieco a cui Sharon aveva cercato di sfuggire (per suggerimento di Sergio Della Pergola) ritirando nel 2005 gli insediamenti dalla striscia di Gaza.
Quale vicolo cieco? Questo: senza concedere autonomia ai palestinesi, Israele renderebbe consolidata e istituzionale una situazione coloniale di apartheid, cessando così di essere una democrazia; oppure, con l’includere i palestinesi nella sua cittadinanza, cesserebbe per dinamica demografica di essere l’unico Stato al mondo a maggioranza ebraica, abbandonando la sua originaria ragion d’essere. Entrambe queste soluzioni sono forme di suicidio per Israele, e sono quelle che la destra israeliana sta perseguendo ciecamente nei fatti. E a forza di “fatti compiuti”: la sottrazione di terre ai palestinesi.
Tagliare i nodi gordiani con la spada invece di cercare di scioglierli con la politica è il modo di un Israele viziato dalla sua forza militare preponderante. Ma fino a quando durerà questa prevalenza, in un Vicino Oriente in trasformazione, in cui si vanno moltiplicando nuovi soggetti politici attivi? Netaniahu è stato sconfitto anche negli Usa: aveva puntato su Romney e ha vinto Obama, con l’appoggio, anche, del 70% dell’elettorato ebraico ( anche se nel 2008 era al 75%). E Obama sta puntando su un’autosufficienza petrolifera dell’America, e sposta i suoi interessi e il suo impegno verso l’Asia.
Si sposta verso oriente il baricentro del mondo, declina la centralità del petrolio, del Mediterraneo e dell’Europa. Fino a quando Israele godrà della sua importanza geopolitica che corrobora le sue alleanze? Alleanze che si vanno già restringendo, nel caso ad esempio della Turchia islamizzata di Erdogan, mentre la presenza (a sorpresa?) dei missili iraniani a Gaza fa sorgere il sospetto sia di una scarsa efficienza del blocco a cui è sottoposta Gaza, sia di un’inefficienza dell’intelligence di Israele. Si è ancora in tempo per riattivare la prospettiva “due popoli , due Stati”? Oppure ormai ci troviamo di fronte a due entità palestinesi consolidate e differenziate, la West Bank e Gaza? Oppure a un’unica entità egemonizzata da Hamas, se Hamas, con l’aiuto di fatto della destra israeliana, riuscisse a soppiantare l’Anp nella stessa Cisgiordania?
Noi scommettiamo ancora su quella formula, perché è l’unica che si presenta ancora come sbocco da un’inerzia mortale. Aveva ragione Cohn- Bendit nel suo intervento al Parlamento europeo, metà novembre 2012: per la sicurezza (e la salvezza) stessa di Israele, l’Europa deve porre ad Israele non degli auspici, ma delle condizioni precise: o riprende i negoziati fermando l’espansione degli insediamenti sul territorio palestinese, oppure l’Europa appoggerà all’Onu la richiesta di Abu Mazen che la Palestina venga ammessa come Stato osservatore presso la stessa Onu. Proprio mentre Abu Mazen ha lasciato intendere di voler rinunciare a un punto cruciale, su cui si erano incagliate più volte le trattative con Arafat: il “diritto al ritorno” dei palestinesi nelle terre da cui la nascita di Israele li aveva cacciati.
Mi sembra che tra i molti meriti ascrivibili al commento di Stefano Levi Della Torre, quello a mio avviso più pertinente al drammatico momento che vive la regione mediorientale, sia l’onestà intellettuale, l’ammissione sofferta che anche in questa occasione a prevalere nelle scelte di Gerusalemme sia stata la forza di Tsahal più che la saggezza politica. L’Iron Dome ha certamente funzionato rafforzando, se mai ve ne fosse stato bisogno, la convinzione largamente condivisa che sotto il profilo militare nessun progresso dei suoi dichiarati avversari potrà cogliere di sorpresa Israele. Ma ancora di più il nuovo scudo, che ha neutralizzato i più perfezionati razzi Fajir, é, e deve essere, per Tsahal il segnale che chi tenta questa via assume per la propria gente responsabiltà di perdite, anche umane, assai pesanti .
E tuttavia anche stavolta il ricorso alla forza ha pagato politicamente l’avversario di turno, Hamas, come nel luglio 2006 esso aveva pagato Hezbollah, due movimenti dell’Islamismo radicale. Allora, la «resistenza» armata al potere di Israele permise a Nasrallah di porsi come riferimento politico oltrecché morale dell’opposizione al grande nemico sionista; ed ancora di più rafforzò l’influenza e il potere del «il Partito di Dio» all’interno del Libano; oggi é Hamas a trarre enormi vantaggi dall’essersi misurato «sul filo della spada» a Israele. E come allora fu Nasrallah l’uomo della vittoria agli occhi del popolo arabo, stavolta il momento della gloria tocca a Khaled Meshall, uomo forte di Hamas, che relega in un cantuccio Abu Mazen il capo di Al fatah che guida oggi l’AP.
In entrambe le occasioni le vittime sono state le forze che hanno più creduto nella stretta di mano sul prato ovale della Casa Bianca tra Rabin e Arafat di quel lontano 1994; e in entrambe le volte dietro la «resistenza» armata ci sono state le armi fornite dall’Iran. Ma allora mette conto chiedersi se sia proprio vero che a vincere sempre sia la forza di Tsahal o se non sarebbe finalmente giunto il momento per Israele di dare più valore alla sicurezza politica piuttosto che puntare tutte la carte su quella militare ?
In Medio Oriente, dopo la crisi di Gaza, nulla potrà più essere come prima.
A dimostrarcelo, e con argomentazioni cogenti, è lo splendido piccolo saggio di Stefano Levi della Torre.
Un testo che si rivolge in particolare – e non gli saremo mai abbastanza grati per questo – a quella maggioranza, putroppo troppo silenziosa, che ha mantenuto ferma, lungo tutti questi anni, la distinzione tra solidarietà profonda nei confronti di Israele e adesione acritica alle scelte dei suoi governi.
Per la destra israeliana, una distinzione da condannare in via pregiudiziale: nel duplice presupposto che le scelte comunque attinenti alla materia di sicurezza del paese spettassero esclusivamente alle autorità di Gerusalemme; e
che queste scelte fossero, nel merito, insindacabili perchè “in sè e per sè” corrette.
Ora, Levi della Torre ci dimostra che non è così; che il governo di destra-centro di Netanyahu ha costantemente interpretato il mondo che lo circonda in termini di minacce da combattere e non di opportunità da cogliere; e che ha
ritenuto possibile di contrastare queste minacce attraverso il puro uso della forza.
Ciò ha avuto il duplice risultato di valorizzare Hamas a scapito dell’Autorità palestinese; e di dimostrare, a che non se ne fosse ancora accorto, che l’uso della violenza non è in grado di eliminare i nemici.
Si apre, dunque, una nuova fase, caratterizzata, insieme, dalla valorizzazione del negoziato e dal ruolo centrale della collettività internazionale nel garantirlo e promuoverlo. Una nuove dimensione esterna che varrà forse a rianimare il confronto interno alla società israeliana.
Un auspicio, per noi e per l’amico Levi della Torre; di più, una possibilità concreta.
C’è una grande onestà intellettuale quando Levi della Torre scrive: “Quale vicolo cieco? Questo: senza concedere autonomia ai palestinesi, Israele renderebbe consolidata e istituzionale una situazione coloniale di apartheid, cessando così di essere una democrazia; oppure, con l’includere i palestinesi nella sua cittadinanza, cesserebbe per dinamica demografica di essere l’unico Stato al mondo a maggioranza ebraica, abbandonando la sua originaria ragion d’essere. Entrambe queste soluzioni sono forme di suicidio per Israele, e sono quelle che la destra israeliana sta perseguendo ciecamente nei fatti. E a forza di “fatti compiuti”: la sottrazione di terre ai palestinesi”.
A mio parere questo vicolo cieco è stato imboccato scientemente e proseguito incessantemente sia dai governi laburisti sia da quelli di destra. Perché altrimenti si sarebbe continuato più o meno intensamente nella costruzione di nuovi insediamenti e favorire tra i palestinesi l’islam integralista e colpire l’opposizione laica se non per rendere irreversibile l’occupazione dei Territori?
Amaramente (per chi ha creduto nella favola bella dei kibbutz) oggi comprendo che questa scelta in fin dei conti non era neppure una scelta, ma il portato conseguente dell’atto stesso di nascita di Israele che conteneva in nuce l’embrione dei massacri futuri.
“Noi scommettiamo ancora su quella formula… ” scrive Levi della Torre; lui forse, di certo non i governi israeliani che si sono succeduti negli ultimi trent’anni.
Netanyahu, politico di grande intelligenza e pragmatismo, cerca solo di minimizzare il danno e massimizzare il vantaggio ben consapevole che l’ipotesi di ‘due popoli, due Stati’ è stata sempre solo una teoria, al massimo buona per le conferenza stampa, ma che non è mai stata – come pure è chiaro per la realtà fatta di acqua, strade, ponti, case e coscienze – concretamente realizzabile.
Semplicemente la soluzione non c’è mai stata e comunque non c’è più oggi.
Ne vogliamo prendere atto?