Mi viene spesso da riflettere su una recente considerazione di Luigi Covatta: nei quasi cinque lustri della seconda Repubblica non è nata alcuna nuova cultura politica. Il mondo è profondamente mutato, ciascuno di noi è a suo modo cambiato, eppure non sono state elaborate “lenti” diverse per cercare di orientarsi e di comprendere la realtà.
Già, ma a cosa servono le culture politiche? Perché non si può ridurre tutto al “problem solving”? La scelta del nuovo inquilino del Quirinale ci offre l’occasione per provare a rispondere. Occorre una persona “di spessore”, si dice da ogni parte; esperta, saggia, in grado di rappresentare il paese, capace di discernere e di scegliere con equilibrio. In tal modo si evocano certamente attitudini e inclinazioni individuali e, accanto a ciò, proprio quelle abilità e quelle competenze alle quali una solida cultura politica predispone.
Il Capo dello Stato, infatti, non è chiamato direttamente a proporre o ad attuare misure e provvedimenti volti a sciogliere i mille nodi dell’economia o, poniamo, delle relazioni internazionali. Non è chiamato al problem solving in senso stretto. Nel contempo, però, tutti percepiscono la delicatezza e l’importanza del suo ruolo. E proprio la cultura politica, con le varie sfumature che l’espressione offre, sarebbe ovviamente preziosa anche nello svolgimento di altre funzioni pubbliche e rappresenterebbe il sale e il lievito per difendere e ampliare gli spazi di libertà e di partecipazione.
Tuttavia qui si aprirebbe un altro discorso: quello sui partiti. Mi vado convincendo, anzi, che uno dei principali limiti delle forze politiche della prima Repubblica fu quello di muoversi a due velocità, per così dire: da un lato il piano dell’elaborazione culturale, dall’altro quello della mentalità e delle pratiche di ogni giorno, dominate da una sorta di principio di inerzia. Ancora conservo, ad esempio, un libricino di Vittorio Silvestrini intitolato “Come si prende una decisione – Evoluzione delle tecnologie e controllo delle scelte” (Editori Riuniti, 1986), volto a divulgare importanti studi nordamericani su come decidere in condizioni non di semplice “incertezza” ma di vera “ignoranza” (ossia quando non disponiamo neppure di semplici probabilità sulle conseguenze delle nostre azioni e brancoliamo così nel buio pesto).
Ecco: in quegli anni capitava che il grosso dei partiti (“elefanti” o “petroliere” che fossero, secondo celebri metafore) non recepisse ciò che veniva elaborato o divulgato al loro interno. Invece oggi a prevalere è un grave deficit di idee.
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