La posizione del M5S non può che essere la seguente: o governo o niente. Per la sua natura «illegittimista», il movimento procede per antitesi radicali (dentro o fuori, noi o loro, onesti o ladri, cittadini o “casta”) che si fondano sul senso ultimo della sua politica: determinare la fine del «sistema» partitico (e, per conseguenza, parlamentare) in Italia.
Per questa ragione il M5S si trova oggi in una posizione al contempo di forza e debolezza. La crisi dei partiti politici ed il recente risultato elettorale gli stanno consentendo di imporre al Partito democratico – il quale commette un errore dopo l’altro – una linea che va verso l’obiettivo immediato del M5S: nuove elezioni entro i prossimi 6-8 mesi.
Senza nuove elezioni a breve termine il M5S è destinato ad entrare in crisi, perché una prolungata attività di opposizione parlamentare lo costringerebbe ad una passività e ad una “compromissione” con il sistema che ne determinerebbero, verosimilmente, la fine. Non c’è retorica nelle parole di Grillo quando dichiara: «Vogliamo il 100% del Parlamento, non il 20% o 25% o 30%: quando il movimento arriva al 100%, quando i cittadini diventeranno lo Stato, il movimento non avrà più bisogno di esistere. L’obiettivo è quello di estinguere noi stessi».
Il M5S ha pertanto bisogno di mantenere il sistema politico, per i prossimi 6-8 mesi, in uno stato di tensione continua, impedendo ogni «normalizzazione» della vita politica del paese. Ci sta riuscendo. Costringere Bersani a tentare la formazione di un governo, infatti, significa obbligarlo ad una serie di errori che il segretario del Pd non sembra, al momento, non poter commettere. L’identità del Pd è stata segnata dall’ opposizione morale (ben prima che politica) al «berlusconismo». Opposizione che è storicamente superata dall’avvento del M5S – ossia da una forza fascista, e non conservatrice come il Pdl – ma che è politicamente attuale.  È in questa ambiguità che il M5S ha buon gioco: dà l’occasione al Pd di chiudere i conti con Berlusconi. Il M5S dà la possibilità al Pd, in questo momento, di radicalizzare l’opposizione con il Pdl (si veda ad esempio la questione dell’ “ineleggibilità” di Berlusconi) e spingere quest’ultimo ad una «mobilitazione permanente» fuori dal Parlamento contro il Pd. A vantaggio di chi andrebbe tutto ciò?
E’ in un clima del genere che il M5S tenterà di andare alle prossime elezioni. C’è un solo elemento di debolezza: senza elezioni, il M5S è destinato ad entrare in crisi. Per questa ragione deve tentare a tutti i costi di mantenersi irresponsabile di fronte al mancato risolversi della crisi politica attuale nei prossimi mesi. Il M5S ha bisogno di irresponsabilità. Ed è per questo che il conferimento del pre-incarico a Bersani da parte del Capo dello Stato è stata forse un’occasione persa. Il pre-incarico favorisce apparentemente il M5S, perché costringe il Pd ad esporsi ad una nuova serie di passi falsi, e rende il Pd responsabile dell’eventuale fallimento delle trattative per la formazione del nuovo governo.
Credo che Napolitano sia perfettamente consapevole di tutto ciò. La decisione di affidare il pre-incarico a Bersani, in questo senso, lascia aperte due interpretazioni: o il Capo dello Stato – per prudenza, per paura, per debolezza – ha rinunciato ad opporsi direttamente al M5S, oppure la sua scelta implica un riassestamento in corso dei rapporti Pd – Pdl, ed una forzatura del Capo dello Stato sulla linea proposta da Bersani.
Il M5S aveva insistito: «Il Movimento 5 Stelle è primo per numero di voti: per questo chiediamo ufficialmente un incarico di governo» (Lombardi). Grillo aveva già definito la linea: «Se proprio Pd e Pdl ci tengono alla governabilità, possono sempre votare loro la fiducia al primo Governo targato M5S». Mossa tattica: ciò che il M5S non vuole, in questo momento, ciò che teme più ogni altra cosa, sarebbe proprio un pre-incarico di governo. Se il Capo dello Stato avesse conferito a Grillo un mandato esplorativo, un pre-incarico, avrebbe costretto il M5S a raggiungere i suoi scopi troppo presto. Ossia a non raggiungerli.  «Troppo presto» (lezione di Montesquieu: elle perdit sa liberté parce qu’elle acheva trop tôt son ouvrage) significa: il M5S sarebbe stato costretto a tentare un esperimento di formazione del governo che Pd e Pdl avrebbero potuto far fallire, ed in tal modo sarebbe stato esposto a quella responsabilità che deve ad ogni costo evitare in questo momento. Il potere si gioca sovente anche in un “troppo presto”, oltre che in un “troppo tardi”  (lezione di Marx: «Noi ci dedichiamo a un partito che nel caso migliore non può comunque andare ancora al potere. Se il proletariato andasse al potere, non prenderebbe provvedimenti direttamente proletari, ma piccolo-borghesi. Il nostro partito può andare al potere soltanto quando le condizioni permetteranno di realizzare la sua idea. Louis Blanc rappresenta il migliore esempio di ciò che si può fare quando si giunge troppo presto al potere»).
Napolitano avrebbe costretto il M5S a “sporcarsi le mani”: o rifiutando il pre-incarico (con un inevitabile “passo falso”, dopo le dichiarazioni rilasciate e le intenzioni ripetute) o accettandolo, impegnandosi così in una trattativa destinata a non risolversi ed esponendosi alle conseguenze politiche del fallimento. Lo avrebbe costretto ad una prova di forza che, forse, al momento non avrebbe potuto sostenere.
Sarebbe stata, certamente, una mossa rischiosa. Un gioco d’azzardo. Ma il M5S non voleva il pre-incarico per sé, e questo tradisce qualcosa. Forse si è persa un’occasione per indebolire il M5S. Forse il M5S avrebbe superato l’impasse; forse, però, no. Le possibilità di “sfidare” apertamente il M5S si andranno ad esaurire: più la situazione di “blocco” si perpetua, più il M5S si rafforza. Questo era forse il momento di provocarlo nel punto in cui esso manifesta ancora una radicale debolezza. Ed il Capo dello Stato era l’unico potere in grado di giocare questa mossa di forza, d’azzardo, in quanto, al momento, unica autorità ancora sostenuta da una forte legittimazione (a differenza dell’assemblea e dei partiti). Il confronto si sarebbe aperto tra Napolitano e Grillo, e non tra Bersani e Grillo.
E se la scelta di Napolitano fosse, invece, una prova di forza non contro Grillo, ma contro Bersani? Il discorso di Napolitano si è articolato in una critica precisa delle opposizioni tra Pd e Pdl: «Si è ricavata – da parte della coalizione guidata dall’on. Berlusconi ma anche da parte di altri – l’esigenza di un governo di vasta unione, che conti innanzitutto sulle due maggiori forze  parlamentari […] Ma le difficoltà a procedere in questo senso sono apparse rilevanti per effetto di antiche e profonde divergenze e contrapposizioni […] Peraltro, anche negli scorsi anni, caratterizzati da una dialettica bipolare tra coalizioni di governo e di opposizione, avevo sempre messo in luce l’esigenza di larghe intese tra gli opposti schieramenti su scelte di interesse generale […] Insisto sulla necessità di larghe intese di quella natura, a complemento del processo di formazione del governo che potrebbe concludersi anche entro ambiti più caratterizzati e ristretti».
A chi sono rivolte queste parole? A Berlusconi o a Bersani? A quest’ultimo, perché è lui ad essere stato incaricato della formazione del governo. Napolitano costringe Bersani alla responsabilità politica di trovare un accordo con il Pdl. Le richieste di Berlusconi sono chiare: fine dei processi e soluzione concordata per il Quirinale. Non pertanto un governo di “coalizione”, ma un’intesa definitiva sull’assetto costituzionale e politico del paese per i prossimi 5-7 anni. Il problema, però, è che il Pd non vuole rischiare: la fine dell’antiberlusconismo segnerebbe la fine definitiva di una linea politica ventennale e di quella classe dirigente del partito che è oggi espressa da Bersani. Pure, Napolitano forse non aveva altra scelta che questa: sostenere la necessità di un governo stabile e di legislatura fondato su un accordo Pd-Pdl, unica soluzione per “bloccare” il M5S all’opposizione parlamentare per 5 anni (e non per 6-8 mesi). Sostenerla anche contro il Pd e la sua linea politica.