Negli ultimi anni, in occasione del Primo Maggio, si sottolinea soprattutto la mancanza di lavoro che colpisce tanti cittadini (specie i più giovani), oppure il carattere spesso precario del lavoro stesso. E alcuni notano come sia oggi più opportuno parlare di lavori al plurale, a indicare proprio la complessità e la varietà che ormai contraddistinguono i rapporti e le condizioni di lavoro.
Eppure non andrebbero rimossi il messaggio di liberazione e la dimensione utopica propri della festa dei lavoratori. Liberazione del lavoro o dal lavoro, ci si chiedeva un tempo? Non è un caso che Giorgio Spini scorgesse le origini del socialismo nella “Utopia” (1516) di Thomas More: una comunità nella quale, fra l’altro, i compiti sgradevoli erano svolti a turno dai suoi abitanti, liberi per il resto del tempo di sviluppare la propria creatività. Certo: come ricordava Giorgio Amendola il lavoro comporterà in ogni caso aspetti di fatica e di alienazione. Ma già oggi il tempo libero è impiegato da tante persone per coltivare interessi e passioni.
Perché dunque rinunciare a immaginare un mondo diverso dall’attuale, nel quale ad esempio il confine fra attività ludico-creativa e impegno lavorativo diventi sempre più labile e sfumato? Perché non provare a liberare davvero il tempo, in maniera da utilizzarlo per fare-lavorare-creare, come occasione di crescita individuale e collettiva?
Un discorso controfattuale, è vero: la dimensione relazionale del lavoro, sempre più importante, risente del deteriorarsi dei rapporti interpersonali ed è sovente segnata da invidie, rivalità, gelosie, competizione senza limiti, fino a fenomeni di “mobbing” o di “burn-out”. Proprio questo però dovrebbe spronarci a concepire il lavoro (i lavori) in maniera diversa: a provare a umanizzarli. L’umanizzazione del lavoro come un versante, per dir così, dell’umanizzazione della società: e insieme una società più degna degli esseri umani come espressione anche di relazioni lavorative migliori.
Un messaggio da affidare ai più giovani, dunque, è quello di coltivare un briciolo di utopia, al fine di tradurre in realtà una parte dei propri sogni non contro, bensì con gli altri e le altre. Insomma: la possibilità di tendere a ciò che ancora non è, di alimentare le proprie aspirazioni, di coniugarle con quelle altrui. Una sorta di utopia delle utopie, per sentirci più liberi e integrati. Liberi non solo di pensare, ma pure di realizzare e di realizzarci, andando oltre l’attuale crisi dell’etica del lavoro.