Il commento dell’autorevole giuslavorista Michele Tiraboschi, critico sull’impianto generale del Jobs Act, fotografa anche la riforma dell’art. 18: “Non convince nemmeno l’intervento sulla flessibilità in uscita risultante dall’introduzione del contratto a tutele crescenti, seppur coerente con la ratio della flessibilizzazione in ingresso. Il nuovo panorama pare delinearsi nel segno di un nuovo dualismo nel mercato del lavoro, che accentua la disparità tra i livelli di tutela tra le generazioni”.
Dall’analisi di Tiraboschi potrebbe scaturire una conseguenza sul piano legale: in occasione dei primi ricorsi avversi a provvedimenti di licenziamento, verrà sollevata la questione di costituzionalità. Infatti la novella legislativa in materia creerà un “nuovo dualismo” tra lavoratori assunti prima e dopo l’entrata in vigore del decreto delegato che introdurrà la nuova disciplina del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, con un vulnus al principio dell’uguaglianza sostanziale sancito dal secondo comma dell’art. 3 della Costituzione. Così come un’altra violazione alla stessa norma costituzionale potrebbe derivare dal differente regime in materia di indennizzo in caso di licenziamento illegittimo, a seconda del limite dimensionale, sopra i 15 dipendenti o meno.
Sul piano sostanziale, poi, opinabile appare la scelta del governo di prevedere l’obbligo di reintegro per i licenziamenti disciplinari solo nel caso in cui si configuri la “insussistenza positivamente dimostrata del fatto materiale contestato al lavoratore”, attribuendo esclusivamente il diritto all’indennizzo a tutte le altre ipotesi (come l’insufficienza di prove per violazione di obblighi contrattuali). Inoltre la delega dovrà chiarire se l’introduzione del licenziamento per “scarso rendimento”, su cui dottrina e giurisprudenza hanno sempre al loro interno evidenziato tendenze niente affatto costanti, può costituire al tempo stesso un motivo oggettivo di licenziamento e/o un motivo di natura disciplinare.
E’ evidente che per i nuovi assunti il regime giuridico protettivo in caso di licenziamento illegittimo sarà fortemente depotenziato, con l’obbligo di reintegro in pratica solo per il recesso discriminatorio. C’è chi sostiene che il risultato finale sul piano giuridico sarà il frutto dell’equilibrio tra diverse posizioni culturali presenti nella maggioranza che sostiene il governo, con forze politiche pro-labour e forze pro-business; e chi invece ritiene che si sia in presenza di una chiara scelta di politica del diritto, legata agli interessi del mondo imprenditoriale (in cui si inseriranno le norme sul demansionamento e quelle sui controlli datoriali a distanza con strumenti informatici previsti nel Jobs Act), finalizzata al superamento del carattere di specialità del diritto del lavoro inteso come strumento di tutela per la parte più debole del rapporto di lavoro.
Può darsi che Tiraboschi abbia ragione sul rischio di un nuovo dualismo in seno al nostro mercato del lavoro. Ma per evitarlo non sarebbe servito un intervento più drastico del legislatore. Come lui e Ballistreri sanno molto meglio di me, ci avrebbe pensato la giurisprudenza a tutelare i diritti acquisiti dalla gran parte dei lavoratori che continueranno a godere della guarentigia dell’articolo 18. Senza dire che, se per la norma approvata grazie ad un compromesso con i parenti della Cgil che siedono in Parlamento si è scatenato un terremoto, una norma più netta avrebbe provocato l’Apocalisse.
Quello che conta, comunque, è che l’eventuale dualismo di oggi è molto più tenue del certificato duakismo di ieri, come specialmente Tiraboschi dovrebbe ricordare.
Quanto infine alle questioni di costituzionalità, mi sembrano francamente di lana caprina: la Corte ha forse abrogato la riforma delle pensioni, che pure instaura un doppio regime fra quanti godono del trattamento retributivo e quanti del contributivo?
Purtroppo, però, c’è chi continua ad usare la Costituzione come un randello contro le riforme: magari rifacendosi agli stessi argomenti di quanti, a suo tempo, si accontentarono di una “rivoluzione promessa” in luogo della “rivoluzione mancata”.
Io non sono un giuslavorista, non mi permetto di esprimere giudizi di costituzionalità o meno sul Jobs Act. Io credo fermamente che tutte le questioni di tutela per i lavoratori vanno risolte con una buona legge nell’ambito della Flex Securety prevedendo in essa un’assistenza economica adeguata ed una riqualificazione professionale per tutti coloro che perdono o non hanno un lavoro.
Gli effetti di normative previste dallo Statuto Dei Lavoratori, dal Jobs Act per i licenziamenti verebbero meno tutti, perchè inutili, toglierebbero alle aziende dei vincoli malefici, darebbero ai lavoratori tutte le garanzie possibili e finirebbe un conflitto fra le parti sociali deleterio per la civile convivenza.
Che tristezza a leggere il commento di Covatta.
Non credo che il jobsact, così come è, riduca la dualità del mercato del lavoro, anzi aumenta la frammentazione e le disparità. Non tiene conte di un mondo che si definisce sui nuovi lavori e su forme di auto imprenditoria “indotta”, non tocca il mondo dei dipendenti pubblici. Mi spiace, speravo in una riforma più incisiva: capisco le circostanze politiche ma al paese oggi servono svolte coraggiose ed una politica del lavoro basata su analisi altrettanto coraggiose. Spero che i decreti attuativi non riducano ulteriormente la portata della riforma. Buon 2015….
Tiraboschi è stato il vero ispiratore della legge 30 e il vero braccio ideologico di Sacconi .Già al tempo della legge 30 stravolgendo il pensiero di Biagi che riteneva i cococo la vera porta per il mondo del precariato e voleva abolirli loro gli cambiarono solo il nome e.li fecero diventare cocopro e li resero molto piu fruibili , non intervennero sugli ammortizzatori sociali e c’erano i soldi e inventarono ex novo forme di assunzioni tipo job sharing g che quasi mai sono state utilizzate. E già nel 2002 come noto avrebbero voluto la cancellazione dell art 18 e un intervento forte sullo statuto teso alla delegittimazione del sindacato nei.luoghi di lavoro, fu Berlusconi e brunetta a impedire liro di ,nserire nella legge 30 simili obbrobri , ma non riuscirono ad esempio a fermare l’intervento sugli appalti che si realizzo nella definizione dell ‘ art 20 che a fronte della cancellazione della legge sull’interposizione di manodopera, creò un regime di subappalti che posero le basi legislative di ciò che è stato scoperto a roma e.non solo nel mondo delle cooperative.Bene fa Luigi a ricordare che un intervento su scarso rendimento e sulla cancellazione di fatto dell’art 18 anche sui licenziamenti disciplinari avrebbe comportato la caduta del governo .È assolutamente sbagliato inseguire questi due signori sul loro terreno perché spacciandosi dietro il pensiero di Biagi ne stravolgono tutto il suo operato, e invece che realizzare una rifoa equilibrata tendono a portarla solo verso le esigenze di un padronato che specularmente al sindacato si fimostra conservstore e reazionario.
Non condivido la posizione del Psi . La motivazione del licenziamento è canone di autoresponsabilità ed il rispetto dei CCNL è essenziale. Neanche la dottrina corporativa era arrivata a tanto, nel recesso libero. LO Statuto è civiltà giuridica, non obsoleto reperto.Le riforme si fanno sul fronte della formazione e della cogestione.
Ma il Psi di Nencini e sottolineo di Nencini non rispetta la Carta dei valori che si è data, semmai legge aziendalisticamente il contratto di lavoro, contravvenendo alla sua facies costituzionale COLLABORATIVA ED ORGANIZZATORIA. Si ricordi Covattadegli studi DI CORRADO E GIUGNI, su opposti fronti ma a tutela del lavoratore, non schiavo ma collaboratore, pur nel conflitto sociale.
A mio giudizio, il problema è di più ampio respiro e va allargato al di là delle disposizioni dello “Jobs Act”.
Alla fine dell’Ottocento, inizi Novecento, la tensione era tra un sistema codicistico (il codice civile del 1865), interprete di un sapere “antico”, impostato sulle solide linee delle costruzioni romanistiche , da una parte, e la nascente legislazione speciale (soprattutto quella in materia di infortuni sul lavoro), dall’altra, considerata come campo fertile di esperienze e rinnovamento della cultura giuridica.
La disciplina giuslavoristica si affermò, di fatto, non contro, ma entro i confini del diritto privato, adattando ai nuovi bisogni le solide architetture del codice civile (che rappresentava una vera e propria “costituzione sociale”, ispirata ai valori del liberalesimo).
Oggi, mi sembra che i protagonisti del conflitto non siano più i datori e i lavoratori, ma, tra i due poli opposti, i soli lavoratori: quelli “più garantiti” e quelli “meno garantiti”.
In buona sostanza, il conflitto mi sembra sia stato direttamente “scaricato” sul sociale.
La dottrina giuslavoristica (e la dottrina giuridica in generale) non ricopre più un ruolo decisivo nella produzione legislativa; inoltre, per quanto attiene al legislatore, il mito illuminista delle leggi “poche, chiare e semplici”, si è appunto rivelato un mito; resta, forse, come osserva Covatta, solo la giurisprudenza.
Certo che anche i giudici nulla possono contro riforme come quella recente sull’art. 92 c.p.c. (sulla compensazione delle spese di lite: in sostanza, viene rafforzato il principio “chi perde la causa paga” e vengono limitate le ipotesi di compensazione delle spese di lite), che di fatto sanciscono l’assoluta equiparazione tra datore di lavoro e lavoratore.
E’ da lì, che, a mio giudizio, occorre ripartire, non limitandosi ad astratti richiami alle disposizioni costituzionali.
A costo di rattristare ulteriormente Matteoli, mi permetto di ricordare a Fareri che Giugni cominciò a parlare di revisione dello Statuto fin dal 1982 (Conferenza di Rimini), e che l’articolo 18, comunque, non è farina del suo sacco, come abbiamo documentato ancora una volta sulla rivista. Quanto al dualismo (o addirittura alla frammentazione) del mercato del lavoro, sfido Castagno a dimostrare che ora è peggio di prima, e gli ricordo comunque che i dipendenti pubblici godono di ben altre garanzie di quelle previste dallo Statuto. E’ vero, infine, che col declino della dottrina giuslavoristica il conflitto viene “direttamente scaricato sul sociale”, come dice Salvatore: ma i sindacati ci sono per questo. Cent’anni fa, senza la legislazione di sostegno di cui oggi godono, riuscirono a contrattare migliori condizioni per i lavoratori e al tempo stesso ad imporre una legislazione sociale adeguata ai tempi. Ora potrebbero fare altrettanto, magari cominciando a contrattare minutamente la nuova organizzazione del lavoro industriale di cui abbiamo parlato nel nostro convegno di Melfi.