Su “la Lettura”, il periodico domenicale del “Corriere della Sera” del 29 dicembre, Danilo Taino ha pubblicato un articolo nel quale sostiene che il fallimento, anziché essere causa di “vergogna” e di “stigma”, come avviene in Europa, è invece, come si pensa in America, un fatto che “aiuta lo sviluppo dello spirito d’impresa”. La tesi appare suadente; però, se collocata all’interno dei valori che costituiscono i parametri di riferimento delle culture economiche prevalenti al di là e al di qua dell’Atlantico, richiede alcune precisazioni che ridimensionano alquanto l’assunto.
Lo spirito d’impresa e il comportamento economico sono intesi in termini radicalmente diversi all’interno delle due culture dalle quali Michael Albert, in un suo saggio di alcuni anni fa dal titolo di per sé eloquente (“Capitalismo contro capitalismo”), aveva derivato due modi alternativi e irriducibili d’intendere il funzionamento del mercato (il “modello organizzativo anglosassone” e il “modello organizzativo renano”), per l’idea largamente condivisa nei paesi europei che l’organizzazione e il funzionamento del sistema economico debbano essere intesi come “economia sociale di mercato”.
All’interno dei due modelli organizzativi il fallimento, cioè l’insuccesso di chi esercita un’attività economica, è inteso secondo una prospettiva che esalta l’azione individuale nel caso del modello anglosassone, mentre esalta l’azione delle istituzioni politiche nel caso di quello renano. Ciò comporta che nel modello anglosassone il ruolo regolatore delle istituzioni politiche sia assegnato alla dinamica spontanea del mercato, e che al contrario nel modello renano il ruolo di “guida e di ordine” del mercato sia assegnato al modo di operare delle istituzioni politiche. Nel mondo moderno l’uso delle risorse avviene prevalentemente non più a livello individuale, ma a livello collettivo; ciò comporta che il controllo proprietario delle risorse sia separato dalla loro gestione, e che tale separazione comporti rapporti tra proprietari e mercato completamente diversi a seconda del modello di organizzativo prevalente.
Nei paesi che privilegiano il modello anglosassone gli azionisti-proprietari delle imprese costituite con l’impiego delle risorse disponibili considerano le imprese stesse come beni al pari di tutti gli altri; le imprese perciò possono essere oggetto di scambio in funzione dei suggerimenti che i loro gestori traggono, nell’interesse dei proprietari-azionisti, dalla dinamica del mercato. Dall’estraneità dei proprietari-azionisti alla gestione delle imprese e dalla specificità degli interessi dei loro gestori trae origine il pericolo che le imprese vadano incontro a situazioni fallimentari non controllabili dalle istituzioni politiche. Se a ciò si aggiunge la considerazione del ruolo delle operazioni speculative nel determinare le risultanze del mercato per i beni reali, la probabilità dell’insorgere di situazioni fallimentari per i loro proprietari aumenta a dismisura, indipendentemente dalle decisioni dei proprietari e dei gestori.
Nei paesi che privilegiano invece il modello renano, le risorse investite nelle imprese sono tendenzialmente di proprietà di un insieme diversificato di azionisti espresso da singoli operatori privati, banche, società di assicurazione, investitori istituzionali, sindacati gestori di fondi-pensione, ecc.; in conseguenza la possibilità che le imprese cadano in situazioni fallimentari è tendenzialmente rimossa o fortemente affievolita, per via del fatto che la stabilità del mercato assume una valenza di natura pubblica, grazie alle fitta rete di rapporti esistente nella proprietà e tra questa e le istituzioni politiche orientate costantemente a prevenire l’instabilità dei valori di mercato, e soprattutto ad impedire che l’incertezza di tali valori sia determinata dalla logica di funzionamento dei mercati finanziari.
All’interno delle due situazioni descritte, caratterizzate dall’adozione dei modelli organizzativi alternativi del funzionamento del mercato, l’idea “romantica” del fallimento come forza che sviluppa lo spirito d’impresa perde di significato. Essa, in astratto, può anche assumere il significato di valore pedagogico proprio del processo del “trie-and-error”: come valore cioè che rinforza il carattere di chi subisce il fallimento, nel presupposto, proprio del senso comune, che un insuccesso possa essere portatore di migliori conoscenze che possono aprire al successo chiunque intenda, dopo essere “caduto”, intraprendere una nuova iniziativa. Nel mondo moderno sarebbe troppo bello se ciò fosse vero e fosse perciò possibile considerare lo stigma di un’eventuale “caduta” non come fatto negativo che sacrifica il funzionamento del mercato e la libertà dal bisogno, ma come fatto positivo che rinforza il carattere di chi lo sperimenta, migliorandone il merito.
A parte queste ultime considerazioni, l’interpretazione del fallimento inteso come fatto che migliora le capacità di chi ne è vittima si ripropone ancora oggi all’interno dei mercati dei moderni sistemi sociali industrializzati, indipendentemente dal fatto che in essi prevalga la cultura economica propria del modello organizzativo anglosassone o quella propria di quello renano; il senso del suo significato si è notevolmente affievolito, in considerazione dei costi sociali insostenibili che il fallimento inteso nel suo significato originario comporterebbe. Ciò nondimeno, ai mercati urge la necessità di disporre di un qualche automatismo che, coniugato con l’attività regolatrice delle istituzioni politiche, possa favorire la eliminazione, nella stabilità, di ciò che nel processo evolutivo del mercato viene giudicato come “non più conveniente”; al riguardo, il pensiero economico ha individuato nel principio della “contendibilità dei fattori” il meccanismo con cui rendere possibile il mantenimento del mercato in uno stato tale da permettere sempre di trarre da esso le informazioni utili ad assumere le scelte economiche più convenienti; un meccanismo che, pur mancando di evocare romanticamente la presunta “forza” del fallimento, aiuta in modo socialmente meno cruento la crescita economica e lo “sviluppo” dello spirito d’impresa.