Ha fatto bene il ministro Franceschini a protestare per l’abuso dell’immagine del David di Michelangelo da parte di una fabbrica d’armi: ma perché non si fa pubblicità alle armi, non perché lo Stato italiano è “proprietario” della statua abusata. “Proprietario” fra virgolette, appunto: con buona pace dei funzionari che si sono affannati a citare commi e codicilli delle nostre leggi di tutela per negare la disponibilità dell’immagine di un’opera che pure viene retoricamente definita “patrimonio dell’umanità”.
Tanto più che si tratta di un patrimonio che si difende meglio con le armi della critica che con la critica delle armi: magari evidenziando l’ossimoro che si determina sostituendo un mitragliatore alla fionda; o anche interpretando l’ossimoro originario, quello di Michelangelo, che identifica Davide come un giovane tanto muscoloso che potrebbe abbattere Golia anche senza il trucco della fionda.
Invece la “critica delle armi” (la concezione custodiale della tutela) feticizza l’opera d’arte, che “non viene goduta per il piacere che suscita, ma per il piacere che ha suscitato”, come scrisse Umberto Eco dopo l’alluvione di Firenze: quando “si piangeva su qualcosa universalmente riconosciuto come bellissimo, ma praticamente ignoto”, e che “poteva rimanere ignoto senza cessare di essere ritenuto bellissimo”, perché “era pacifico che andasse goduto non perché lo si guardava, ma perché si sapeva che c’era”, tanto che “anche i suoi custodi, prima che si alluvionasse, non ritenevano indispensabile metterlo alla portata del pubblico, e lo nascondevano in soppalchi e scantinati”. Salvo accorgersi della “grande bellezza” di quel qualcosa quando un film ambientato fra i monumenti di Roma viene premiato ad Hollywood.