Del libro di Umberto Ranieri – Napolitano, Berlinguer e la luna – colpisce ad esempio l’attenzione ai volti. Sì, all’aspetto del viso dei protagonisti del suo racconto dal sapore autobiografico. E i miglioristi paiono animati nel contempo da pazienza, ironia e inquietudine. L’autore è più che mai attento ai sentimenti propri e altrui, e rende mirabilmente la solitudine che spesso caratterizza la lotta politica. Ecco cosa scrive sul suo diario il 30 giugno 1988, all’indomani di elezioni amministrative parziali dall’esito negativo per il Pci: “incontro conviviale nella mia casa di via Fornelli con Napolitano e alcuni compagni della ‘destra’ napoletana. Pietro Valenza rimprovera maldestramente Giorgio per la sua condotta al Comitato centrale. Succede una mezza tragedia. Giorgio si inalbera e reagisce. Pietro esagera. Mi colpiscono le parole di Giorgio e l’emozione con cui le pronuncia. Parla della coscienza in lui viva dei propri limiti, della responsabilità che avverte verso tanti compagni, del travaglio nel votare Occhetto. Mi sorprende e mi commuove”.
Una “tranquilla malinconia”, del resto, accompagna tutte le pagine del volume. E Ranieri coglie subito un dato saliente: “nella straordinaria macchina politica che era il Pci di quegli anni non mancavano i tratti di una Chiesa”. Tanto che lui, giovanissimo, venne bollato come menscevico per essersi astenuto in occasione del voto per la radiazione degli organizzatori de il manifesto a Napoli. E da tutto il libro emerge una considerazione: il Pci, compreso quello degli ultimi anni, era assai meno “socialdemocratico” di quanto all’esterno si pensasse. Da qui la vicenda di Riccardo Terzi e l’esclusione di Luciano Lama e di Napolitano dal novero dei possibili successori a Berlinguer alla guida del partito. “La mia convinzione è – egli anzi scrive riguardo ai sommovimenti seguiti al 1989 – che abbia pesato sui caratteri assunti dalla sinistra italiana l’antica ostilità alla socialdemocrazia”. Non ancorare in maniera compiuta e consapevole la “svolta” alla socialdemocrazia ha privato la coscienza di milioni di persone, come acutamente notato da Biagio de Giovanni, di “una struttura di riferimento”.
E in un altro passaggio emerge l’umanità dell’autore: “La pietà esige l’ardua responsabilità di prendere sul serio i diritti e la dignità di chiunque, quali che siano le azioni e i comportamenti, soprattutto se sanzionabili. Valori di civiltà che aveva ricordato a tutti, in uno splendido articolo, Salvatore Veca, replicando alle parole con cui l’ideologo della Lega, Gianfranco Miglio, aveva commentato il suicidio in carcere di Gabriele Cagliari”. Né Ranieri è indulgente con se stesso. Notando che il Pds avrebbe dovuto battersi contro la criminalità ispirandosi alla lezione di Giovanni Falcone, scrive: “Soltanto un vecchio migliorista come Gerardo Chiaromonte lo fece. Io no. Fui un vile. Ero membro della commissione antimafia, avrei dovuto manifestare esplicitamente dubbi e perplessità su alcune scelte, ma evitai di farlo. Le volte in cui intervenni provai a esprimere dei distinguo del tutto flebili e incomprensibili”.
E cosa, più della poesia, può accompagnare la tranquilla malinconia di un essere umano? Quella stessa poesia, in fondo, di Berlinguer che si rivolgeva alla luna fra i Sassi di Matera, nel 1980. E la poesia accompagnò anche uno dei periodi più difficili della vita dell’autore, con l’iscrizione nel registro degli indagati per finanziamenti illeciti al partito, a Napoli. Era la fine del 1993. “Trascorrevo le notti insonni leggendo versi. Ritrovai quelli di Orazio nella traduzione di Paolo Bufalini: ‘Equa ricordati di conservar la mente nei difficili casi della vita, e nei buoni, scevra da insolente esultanza’”.
Già; e oggi? Dinanzi ai proclami di improbabili rivoluzioni, Ranieri preferisce parlare di riforme liberali dell’economia e della società. E al centrosinistra odierno (che continua a scrivere col trattino) ricorda l’eredità del socialismo liberale. Una questione di rilievo, emersa in particolare con il ruolo di “motore di riserva” assunto dal Quirinale, va notata: Ranieri ed Enrico Morando si sono pronunciati a favore dell’ipotesi semipresidenziale. Assai dubbioso al riguardo è parso il Capo dello Stato. Però “su un punto Napolitano aveva ragione: l’idea sostenuta dalla destra di introdurre il semipresidenzialismo in Italia a colpi di emendamenti non era accettabile”.
In un altro passaggio l’autore sembra far trasparire come un bambino i propri sentimenti, nutriti di meraviglia e ammirazione: le dimissioni di papa Benedetto. Un evento da lui accostato per la sua forza travolgente e per il suo carattere paradigmatico al crollo del muro di Berlino.
Non può sfuggire, poi, che Ranieri è accompagnato nel viaggio attraverso i ricordi dal suo Virgilio: Luciano Cafagna, vera e propria coscienza critica della sinistra e del paese. L’autore, in un momento delicato, pensa inoltre che la politica non sia arte sua, e in tal maniera pare interrogarci sull’essenza stessa di quell’arte.
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