Serge Latouche, nei suoi ultimi libri (Limite e Usa e getta), torna ad ammonirci sul fatto che la “condizione umana è inscritta dentro dei limiti”, e che l’andare oltre è la conseguenza del dominio di un modello di sviluppo planetario che ignora ogni confine naturale, geopolitico, etico, antropologico e simbolico. Il peccato di dismisura, sanzionato dagli antichi, si è rovesciato in un furore prometeico.
Alla tracotanza autodistruttiva dell’universalismo liberoscambista Latouche contrappone un demos formato da uomini emancipati che, facendosi carico della loro autonomia, si danno delle frontiere costitutive di un mondo comune eco-compatibile nel quale rinverdire i veri legami che creano la società.
Si tratta del solito sermone latouchiano, nel quale viene sottolineato che l’introduzione di un limite alla logica della crescita illimitata è strettamente correlata alla necessità del buon funzionamento dell’organizzazione sociale e dell’adozione di norme che evitino agli uomini d’essere prigionieri della dismisura e dell’illimitatezza. Il problema è, riconosce Latouche, che ogni limite è arbitrario, e che la sua determinazione lascia sempre margini di incertezza. L’arbitrarietà sta nel limite della ragione, per sottrarsi al quale la cultura dell’Occidente è pervenuta alla conclusione della sua inesistenza; in tal modo la cultura moderna ha denunciato la “dimensione tragica della dimensione umana, stretta tra l’impossibilità di definire norme razionali e quella di vivere senza norme”.
Tuttavia gli uomini moderni, approdati al Rinascimento, hanno preteso di riscattarsi da questa condizione, liberandosi da qualsiasi limite per abbandonarsi a una “caccia all’infinito”. Inoltre la loro ingegnosità sfrenata, acquisita attraverso i progressi scientifici e tecnologici, li ha spinti a pensare di poter risolvere tutti i problemi, liberandosi dai principi etici degli antichi.
Questo processo ha trovato la sua piena affermazione col “progetto dei Lumi”; l’illuminismo, infatti, per Latouche, ha inteso liberare gli uomini dalla soggezione alla trascendenza, alla tradizione e alla rivelazione, ma anche assicurar loro il controllo razionale della natura traverso l’economia. In questo modo gli uomini hanno edificato una società la più eteronoma (guidata, cioè, da principi ad essa esterni) della storia, soggetta alla dittatura dei mercati e alla mano invisibile dell’economia. Con l’artificializzazione del mondo, conseguenza dell’illimitatezza tecno-scientifica, gli uomini sono arrivati a pensare di poter manomettere la propria identità biologica, per liberarsi dai vincoli inerenti il loro condizionamento genetico.
Se anche riuscissero a rompere il “cerchio di ferro della finitezza”, gli uomini non potranno certo, secondo Latouche, risolvere i propri problemi sociali generati dall’illimitatezza; ciò perché l’antinomia tra ragione razionale e ragione ragionevole non può essere risolta dalla ragione stessa. La sola autorità che può risolverla è il demos, ossia gli uomini emancipati che si fanno carico della loro autonomia e si danno delle frontiere costitutive di un mondo comune che contiene diversi mondi comuni.
In origine, conclude Latouche, la prospettiva della decrescita si proponeva più modestamente di far fronte alla dismisura economica, ma oggi si deve constatare che progressivamente questa dismisura è divenuta il veicolo di tutte le altre; di conseguenza, la prospettiva della decrescita assume oggi una dimensione più generale, in quanto è una questione che si pone per l’individuo, ma ancora di più per l’essere collettivo. Quest’ultimo perciò deve sapersi dare una norma del sufficiente; Latouche, citando non del tutto a proposito André Gorz, sottolinea che in mancanza di un riferimento alla tradizione la norma va definita politicamente.
Questa sua conclusione è la contraddizione di sempre di Latouche, vittima di un’ideologa che lo spinge a pensare che un pensiero astratto possa avere una rilevanza politica concreta. Ipotizzare un ruolo politico per un demos costituito da uomini quali erano nel lontano passato significa mancare di realismo e, sulla base di una concezione tragica della vita qual è quella di cui Latouche stesso è portatore, rifiutare gli uomini in carne, ossa e cultura di oggi.
Non che non sia necessario, oggi più di ieri, rifiutare la logica dell’ “usa e getta” tanto in voga nei sistemi sociali ad economia industriale avanzata, evitando l’ “obsolescenza pianificata dei beni” (quella determinata da una svalutazione tecnica intenzionale delle produzioni), quale si ha, ad esempio, con l’introduzione di una “nuova generazione” di macchine utensili prima ancora che quelle della generazione precedente siano rese obsolete anche dal punto di vista economico (perché totalmente usurate dall’impiego). Oppure che non sia necessario evitare l’ “obsolescenza simbolica” (quella determinata da una svalutazione delle produzioni realizzata attraverso la pubblicità a sostegno di stati di bisogno solo esteriori o appariscenti). Tuttavia occorre tener conto dell’improponibilità di un ritorno a modelli di consumo del passato senza valutarne le conseguenza negative dal punto di vista del funzionamento del sistema economico e della tenuta della stabilità sociale.
E’ a questo tipo di conseguenze negative che Gorz riferisce la sua prospettiva riformista della società capitalista, mentre Latouche, facendo appello a categorie antropologiche e politiche fantasiose, propone il superamento radicale del progressismo illuminista e dei difetti della società industriale che da esso ha tratto origine.
André Gorz, però, pur riconducendo la causa della crisi del capitalismo alla sua struttura e all’organizzazione istituzionale che la sorregge, sino a prefigurare la crisi stessa come anticipazione di una sua prossima fine irreversibile (come fa Latouche) propone osservazioni critiche che, a differenza di quelle di Latouche, sono di grande attualità, per la loro apertura alla possibilità di riformare il capitalismo in positivo, di contro a ogni teoria della fine della storia dell’umanità, o quanto meno di un ritorno dell’umanità stessa alla sua origine.
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