Nell’inverno del 1951 un’Italia non certo prospera si strinse attorno agli alluvionati del Polesine. Nella mia scuola si raccoglievano indumenti da mandare a Goro, e qualche piccolo gorante avrà sicuramente indossato il mio primo cappotto, già destinato a mia sorella. Poi, dagli anni ’70, a Goro si realizzò una specie di ”socialismo realizzato”: non nel senso sovietico del termine, ma semmai in quello autogestionario che allora animava le retoriche del socialismo francese.
Alle elezioni comunali i quattromila goranti (così si chiamano gli abitanti di quel paesino di pescatori) assegnavano la maggioranza al Pci e la minoranza al Psi, mentre era socialista il presidente della cooperativa dei pescatori che provvedeva a commercializzare il pescato e a trasformare l’invenduto.
Il reddito pro capite ebbe un’impennata, tanto da essere paragonato da qualcuno a quello della California. Ma questo non modificò gli orientamenti politici della popolazione. Solo dopo la grande purga degli anni ’90 i goranti cambiarono verso: prima votarono in massa per Forza Italia (in cui erano confluiti molti degli amministratori precedenti), poi scivolarono verso la Lega. Ora fanno le barricate per impedire a dodici donne migranti di raggiungere un ostello vuoto, così come sessantacinque anni fa le facevano per arginare la piena del Po.
C’è da riflettere. Innanzitutto sull’alternarsi delle generazioni, che evidentemente non sempre assicura continuità culturale. Poi sulla fragilità del famoso “radicamento sociale” della sinistra, e sulle conseguenze di lungo termine delle radiose giornate di Mani pulite. Ancora, sulle derive estremistiche in atto nel centrodestra. Infine, nel sessantesimo anniversario della rivoluzione ungherese, sui percorsi paradossali della storia che portano da Nagy ad Orban.
Riflessione giusta e opportuna sia sul piano politico che sociale. Conoscendo il territorio, condivido
Quelle di Covatta sono riflessioni lucide e amare. Chi vive in questi posti sa che la maggioranza – che purtroppo è silenziosa – è fatta di gente generosa e accogliente. Ma sono quelli che urlano a farsi notare e urlano perché non sanno parlare, non conoscono la concertazione sociale e, forse, non sanno cosa dire. Queste barricate rumorose erano annunciate da tempo, si aspettava con ansia la prima ghiotta occasione.
Gigi ha perfettamente ragione: il fallimento della sinistra si è giocato in gran parte sul piano culturale. Non si è saputo dare continuità e forza ai valori che erano patrimonio del socialismo: solidarietà con i più deboli, condivisione e fratellanza. Raggiunto il benessere qualcuno ha creduto di avere raggiunto anche il socialismo che a questo punto era più di impaccio che altro. Ed immediatamente si è arrogato il diritto di difenderlo contro tutto e tutti. Un percorso che hanno fatto in molti anche a Goro Gorino grazie alle vongole. Il socialismo è tutto da ricostruire, pena la guerra fra poveri poveri e poveri che si credono ricchi.
Fausto Gianella, “portavoce” dei barricadieri di Gorino, prende le distanze da quella signora Elena che a “Piazzapulita” ha detto che Mandela era un terrorista e che i neri hanno il cervello più piccolo dei bianchi: “Viene da fuori”, ha detto. Ma parlava con l’inconfondibile accento della Bassa ferrarese la giovane deficiente che, con l’occhio furbetto proprio dei “cervelli fini” che non hanno bisogno d’informarsi per sapere le cose, la sera della rivolta ha detto al Tg1 “Non sono stranieri, sono clandestini”. Gianella prenda le distanze anche da lei.
Senza nulla togliere alla soluzione di continuità culturale, sociale e storica che il direttore segnala – radicale, in un contesto che appare di pura sopravvivenza e senza luce, anche ottuso nel caso del premier ungherese Orban – un dato delle cronache da Goro può suggerire ulteriori considerazioni. A quanto pare, delle due persone – una donna e un uomo – indicate come suscitatrici della mobilitazione della (scarsa) popolazione che (ancora) vive in quel punto del Delta del Po, la prima ha una storia: emigrata in cerca di lavoro con il marito in Sicilia alle pendici dell’Etna ne sono tornati dopo alcuni anni, facendo in tempo a osservare quanto accadeva (e accade) dentro e attorno al CARA di Mineo (Catania) dove immigrati in attesa di decisioni sulla loro sorte stanno e vagano senza far nulla da anni e per anni. Una situazione che, alla solita maniera di meraviglia e di scandalo giornalistico e politico, cui non segue molto e quindi senza luce anch’essa, è venuta alla ribalta delle cronache nazionali di sguincio all’indagine su Mafia Capitale, per il ruolo di responsabilità che nella gestione di quel centro di “accoglienza” aveva uno degli imputati romani. Si può pensare che la donna abbia immaginato che dentro e attorno a Goro poteva riproporsi quell’andirivieni, quello stare inoperoso, sostenuto e riempito (anche) da attività e interessi fra l’espediente e la malavita, con cui convivono da anni alcuni paesini dell’Etna? E che ella abbia temuto che quanto hanno potuto e possono sostenere a malincuore, con avversione, ecc. ma almeno di fatto (anche qui, senza luce) quelle decine e centinaia di migliaia di residenti siciliani, potesse travolgere, invece, le poche decine di persone che oggi vivono a Goro? Se non è irragionevole ritenere fondati questi possibili pensieri, possiamo considerare quanto sarebbe efficace, per indurre o convincere chiunque di noi ad accogliere i migranti, risolvere davvero nel concreto le situazioni incancrenite e le nuove che possono ancora nascere se non gestiremo bene il continuo arrivo dei profughi dalle coste meridionali del Mediterraneo. Perché l’informazione corre, basata sull’esperienza diretta e non solo sulle chiacchiere di cui si fanno portavoce i media o che corrono sul Web. Un’impresa. in effetti, da non dormirci la notte, come già accade al personale della guardia costiera e a quanti, nel pubblico e nel privato, per l’assistenza e la sicurezza, stanno affrontando, per tutti noi, questo terremoto geopolitico. Non potendoci limitare a invocare a Goro, a destra come a sinistra e dappertutto (anche se può servire), l’invocazione che Domenico Rea pose a titolo di un suo libro: Gesù, fate luce!
Una signora che da Goro è andata a cercare fortuna sotto l’Etna non deve stare benissimo. L’ostello che la provincia di Ferrara ha dato in affitto ad una signora di nazionalità serba (Immigrata, ma bianca) non potrebbe mai trasformarsi nel Cara di Mineo, se non altro per ragioni di capienza. Rea raccontava il dramma di una grande città devastata dalla guerra e dall’occupazione americana: per fare luce su un borgo di vongolari non è il caso di scomodare Gesù.