Un paese sull’orlo di uno scontro sociale: è questo che si evidenzia dalle drammatiche immagini delle cariche della polizia sugli operai della Thyssen Krupp di Terni, che manifestavano a Roma per difendere l’occupazione, e che hanno rievocato quelle dell’immediato dopoguerra, quando con Mario Scelba al ministero degli Interni le forze dell’ordine disperdevano con le camionette le manifestazioni di piazza dei lavoratori.

Ma quelli erano gli anni della “guerra fredda”, dell’anticomunismo ideologico e maccartista in America importato in Italia dall’ambasciatrice Clara Booth Luce, della divisione del mondo in blocchi: con la Democrazia cristiana e i suoi alleati laici schierati con l’Occidente, e l’opposizione, comunisti e socialisti, che guardavano alla Russia dei Soviet, e la Cgil a fare da “cinghia di trasmissione” nelle piazze contro i governi centristi, il Patto Atlantico, gli Usa, il Vaticano e il modello capitalistico.

Oggi al governo c’è Renzi, il leader del partito che è il punto terminale della maggioranza degli ex-comunisti in Italia, di recente nel Pse forse per la necessità di un approdo nella grande famiglia della sinistra riformista europea, e che però punta ad un blocco sociale diverso da quello tradizionale delle forze socialiste, socialdemocratiche e laburiste del Vecchio Continente, formato da lavoratori dipendenti e pensionati. Renzi infatti guarda a quel modello di all catch party, il “partito pigliatutto” di stampo pluriclassista descritto da Otto Kirchheimer, con una sorta di “nocciolo duro” rappresentato dai ceti emergenti legati all’innovazione tecnologica e alla finanza creativa. Anche Bettino Craxi, negli anni ’80 del Novecento, per realizzare le politiche del “nuovo corso” del Psi guardò alla modernizzazione sociale ed economica, senza però operare cesure con la base storica del socialismo, quella del mondo del lavoro. Infatti da presidente del Consiglio tentò sino all’ultimo di realizzare nel 1984 un grande patto sociale contro l’inflazione e per lo sviluppo, cercando il consenso della Cgil guidata da Lama: il quale subì il veto di Berlinguer, impegnato a mantenere quella sorta di “diritto”, frutto del consociativismo con la cosiddetta “sinistra Dc”, a imporre anche dall’opposizione le indicazioni del suo partito in materia economica e sociale, e allo stesso tempo a contrastare spasmodicamente l’evoluzione della sinistra italiana verso i modelli del socialismo democratico europeo che ispiravano l’azione di Craxi. La conseguenza fu il decreto di San Valentino che tagliò la scala mobile con il consenso della Cisl di Pierre Carniti, della Uil di Giorgio Benvenuto e della minoranza socialista della Cgil, e la sconfitta del Pci nel referendum del 9 e 10 giugno 1985, che originò una stagione di crescita dell’economia, anche con la drastica riduzione dell’inflazione, e di benessere per il paese.

Forse il precedente storico-politico di Matteo Renzi può essere individuato nel New Labour: in quella “terza via” tra socialdemocrazie classiche e mercato che tra il 1997 e il 2007  ha segnato l’esperienza di governo di Tony Blair, esperienza nella quale il leader laburista inglese fu facilitato dalla circostanza che le Trade Unions erano state sconfitte ed emarginate dalla “Dama di ferro”, la conservatrice Margareth Thatcher, a partire dallo scontro-simbolo del 1984 con i minatori guidati da Arthur Scargill.

I sindacati italiani, nel conflitto ormai aperto con Renzi, appaiono in una posizione diversa rispetto al passato: soprattutto la Cgil. Giuseppe Di Vittorio, con il “Piano del lavoro” di stampo schiettamente keynesiano del 1949, Luciano Lama, con la politica dei “sacrifici” e la “svolta dell’Eur del 1977-78, Bruno Trentin con la firma degli accordi sulla politica dei redditi del 31 luglio 1992 con il governo di Giuliano Amato e del 23 luglio dell’anno successivo con Carlo Azeglio Ciampi, e lo stesso Sergio Cofferati con la pratica della concertazione triangolare esecutivi-sindacati-imprese sino al 1999 (prima della “svolta” antagonista dopo il 2001 contro il centrodestra al governo), non furono mai sostenitori del conflitto a tutti i costi, ponendosi con convinzione l’esigenza di uno sbocco riformatore alle lotte operaie. Oggi la Cgil di Susanna Camusso, e soprattutto il leader della Fiom Maurizio Landini, sembrano a tratti ispirarsi ad una visione quasi palingenetica del conflitto sociale, che richiama, mutatis mutandis, il sindacalismo rivoluzionario dei primi del ‘900: quello teorizzato da Arturo Labriola ed Enrico Leone, con leader come Filippo Corridoni e Alceste De Ambris tra gli altri, e il mito dello “sciopero generale” di George Sorel; e con richiami all’occupazione delle fabbriche che riportano alla memoria il “biennio rosso” tra il 1919 e il 1920 e gli errori della sinistra massimalista che contribuirono all’ascesa del fascismo (quel massimalismo sociale che non è una spirale virale, come testimoniano, in una sorta di nemesi, le contestazioni dei lavoratori della Thyssen Krupp allo stesso Landini, “reo” di avere imboccato la strada di un accordo con l’azienda).

La Cisl e la Uil, dal canto loro, sembrano trovarsi a metà del guado, non volendo seguire la Cgil sul terreno dello scontro sociale, ma non avendo – come negli anni della “guerra fredda” e più di recente dei governi Berlusconi – una sponda istituzionale in cui far valere una strategia collaborativa.

Una domanda è obbligo nell’interesse del paese: in una fase di così grave crisi sociale ed occupazionale, a chi giova una prospettiva di radicale conflitto sociale? Sarebbe opportuna, da parte dei due schieramenti in campo una volontà di dialogo.