Da sempre, il lavoro produttivo è posto a fondamento del diritto di proprietà, inteso come diritto del titolare di godere e di disporre in modo pieno ed esclusivo, entro certi limiti, dei beni prodotti; su questo assunto sia i socialisti che i liberisti sono sostanzialmente d’accordo: i socialisti, rivendicano che al lavoratore sia dato tutto il prodotto del suo lavoro; i liberisti, invece, legittimano una distribuzione dei beni proporzionale al contributo reso in termini di lavoro tra tutti coloro che partecipano alla loro produzione. Dai primordi della storia dell’uomo, il lavoro produttivo del proprietario è considerato, quindi,come il presupposto del diritto di proprietà nell’ordine civile e, sul piano etico, sino all’inizio dell’età moderna, tale presupposto è rinforzato da un presunto ordine naturale.
Su queste basi, come già è stato messo in evidenza oltre un secolo fa da Thorstein Veblen, chiunque prima dell’inizio dell’età moderna, si fosse domandato quale fosse il fondamento civile e quale fosse la giustificazione morale della proprietà poteva darsi una risposta universalmente accettata: il “proprietario naturale” è colui che produce un bene utile col proprio lavoro. Una simile risposta riconduce però la giustificazione della proprietà dei beni prodotti con il lavoro ad un individuo isolato e autosufficiente; in tal modo, viene trascurato il fatto che non esistono individui isolati e autosufficienti, in quanto ogni produzione avviene entro e con l’aiuto della comunità, al cui interno solamente il lavoro può trasformarsi nella disponibilità di beni.
Fin dall’epoca della rivoluzione agricola (8-12 mila anni or sono), nessun individuo ha mai lavorato in una condizione di isolamento, così da produrre beni utili con il suo solo lavoro indipendente. Anche allora, perciò, la produzione era un fatto collettivo, compiuto all’interno della comunità attraverso la cooperazione dei soggetti che ne fanno parte. Dato che non esiste produzione da parte di soggetti isolati, il presupposto morale dell’ordine naturale, secondo il quale la proprietà trova fondamento nell’esercizio isolato del lavoro produttivo, ha lentamente perso di significato.
A parte il periodo romano e quello dell’alto Medioevo, in cui la proprietà dei beni ha un’origine predatoria, a determinare l’affievolimento della giustificazione morale della proprietà secondo l’ordine naturale è la crescente rilevanza che la stessa giustificazione assume nell’ordine civile; ciò avviene con l’introduzione del denaro nell’ultima fase dell’età medievale. La scoperta del mercato e l’affinamento delle procedure di intermediazione commerciale e finanziaria stimolano la critica delle modalità di sfruttamento della terra e, in generale, delle risorse naturali, perché tali modalità sono considerate troppo conservatrici. All’inizio dell’età moderna, la giustificazione della proprietà nell’ordine civile è oggetto di un acceso confronto tra i filosofi dell’epoca: per alcuni non è un diritto naturale, bensì di un diritto civile; per altri la natura della proprietà e del diritto che la sottende sono di origine contrattualistica; altri ancora, pur riconoscendo la natura di diritto naturale della proprietà, distinguono la proprietà dei beni prodotti col lavoro da quella delle risorse naturali donate da Dio agli uomini, per cui di queste risorse ciascuno deve poter disporre in misura sufficiente a consentirgli di lavorare per procurarsi il necessario di cui vivere. Secondo quest’ultima tesi, perciò, tutti devono poter vivere e nessuno deve avere il diritto di estendere il proprio dominio su ciò di cui gli uomini possono disporre senza aver lavorato; perché, se ciò accade, nascono inevitabilmente delle ingiustizie e quindi dei conflitti all’interno dell’ordine civile.
L’avvento della rivoluzione industriale fa strame di queste logiche conclusioni, sino al punto di considerare opportuna una estensione generalizzata del diritto di proprietà su tutti i beni disponibili, inclusi quelli che, come le risorse naturali, rappresentano beni per la cui produzione non è stato compiuto alcun lavoro. Dalla fine del Settecento ad oggi, il processo di accaparramento privato delle risorse naturali ha una forte accelerazione, che porta alla trasformazione di gran parte delle risorse naturali in beni-capitale di proprietà privata per il sostegno di un processo di crescita continua della produzione, indipendentemente da ogni considerazione dell’impatto negativo che tale tipo crescita ha sulle condizioni di vita dei destinatari degli incrementi produttivi continui. Il processo di accaparramento è rinforzato dalla nascita della teoria economica moderna, costruita ed affinata sulla base di ipotesi che assumono come un dato indiscusso la distribuzione di tutte le risorse, senza alcun riguardo alla sua origine e senza alcuna considerazione sulla necessità di distinguere tra i beni che possono essere oggetto del diritto di proprietà privata e quelli che non possono esserlo.
Tra le risorse naturali è inclusa la terra, ovvero il territorio sul quale sono organizzate le comunità per il perseguimento dei loro progetti di vita. Le ragioni per cui ancora ora essa viene fatta oggetto di proprietà privata sono le più svariate: per coltivare cibo o agro-combustibili su scala industriale, per installarvi impianti estrattivi, produttivi o di smaltimento, per costruire dighe o altre infrastrutture, per espandere città e per altro ancora. Indipendentemente dagli obiettivi, le comunità che vengono escluse dalla possibilità di accedere alla terra sono contemporaneamente private dei loro mezzi di sostentamento, oltre che del diritto di gestire autonomamente le risorse da cui dipendono; di conseguenza, l’interesse privato ha finito con l’essere messo al di sopra del bene comune. E’ per questo motivo che in Italia è nato un movimento per una “Costituente dei Beni Comuni”, il cui scopo è quello di dare suggerimenti per una ridefinizione del concetto di proprietà, attraverso una rilettura delle norme costituzionali riguardanti la funzione sociale della proprietà privata e il riconoscimento dei diritti fondamentali delle comunità. Tutto ciò, al fine di abbandonare il mito della crescita continua, per realizzare una vera “rivoluzione civile” riguardo ai processi di appropriazione di risorse la cui proprietà collettiva deve comportare che per la loro utilizzazione si tenga conto della volontà di tutti.
A questo tema “la Repubblica” ha dedicato un volume nella collana “La repubblica delle idee”; nel volume viene riproposto il dialogo, svoltosi il 7 giugno scorso a Firenze, tra Carlo Petrini, fermo sostenitore della biodiversità, il regista cinematografico Ermanno Olmi e il critico d’arte Gregorio Botta. Il dialogo si svolge intorno all’interrogativo se la “Terra sia un bene comune”; le considerazioni più interessanti, anche se non sviluppate, sono quelle espresse in apertura da Botta, allorché osserva che la domanda non dovrebbe nemmeno esser posta, “tanto dovrebbe essere scontata la risposta”. Sennonché, la risposta non è affatto scontata, se si considera che il pianeta Terra, soprattutto negli ultimi anni, a causa del processo di sostenuta globalizzazione delle economie nazionali, è oggetto di un crescente processo di privatizzazione. Nel dialogo prevalgono le considerazioni sugli aspetti ecologici del processo di privatizzazione del pianeta; questi aspetti, per quanto importanti, colgono solo una dimensione del più generale problema, tuttora irrisolto, dell’interrogativo se la Terra sia un bene comune. A questo interrogativo occorre dare non tanto risposte scontate, quanto risposte che stabiliscano se sia ancora conveniente oggi, per la sopravvivenza e l’ulteriore progresso dell’umanità, la conservazione dell’istituto della proprietà privata estesa anche alle risorse naturali.