E’ di poche settimane fa la notizia abbastanza clamorosa (anche perché abbastanza imprevista) dell’assoluzione in appello di Berlusconi nel processo aperto contro di lui dalla Procura di Milano per le note vicende legate a quello che chiamerò, nobilitandolo, “l’affare Ruby”. Notizia imprevista e tuttavia tutt’altro che imprevedibile, dati due o tre elementi che si dovevano tenere in considerazione. Anzitutto il carattere relativamente equilibrato, e tutto sommato soddisfacentemente “garantista”, del processo penale italiano. I suoi difetti sono la lentezza, non la quantità d’ingiustizie perpetrate, probabilmente minori che in altri ordinamenti magari presi ad esempio anche dalle nostre parti. Il secondo punto è il rinsavimento dell’imputato, che ha rinunciato ad avvalersi di difensori un po’ simili a lui, più attenti ai cavilli ed ai giochetti processuali (oltre che ai riflettori dei media) che non alle noiose tecnicalità del diritto. Franco Coppi è uno dei nostri migliori avvocati penalisti per le sue capacità tecniche e per le sue competenze, e ha saputo ricondurre il processo all’interno di logiche strettamente giuridiche e tecniche, come doveva essere. Forse ha giuocato anche un certo appannamento dell’accusa, giacché la Procura di Milano in questi giorni non gode di buonissima salute e di immacolata reputazione.
Nella stessa settimana in cui s’è avuta la sentenza d’appello del processo Ruby è apparso sull’Economist un breve, ma sconsolante articolo dedicato all’Italy’s judicial system. Il quadro in esso tracciato è di un sistema che ha cessato di funzionare, come ben sanno tutti coloro che a vario titolo s’interessano del processo civile, ma anche penale, nel nostro paese. Ed ha cessato di funzionare non perché sia giusto o ingiusto, ma per suoi tempi, che lo rendono sempre e comunque ingiusto e dannoso: ingiusto, perché un innocente non può aspettare per cinque, sei anni di veder riconosciuta la sua innocenza, magari dopo che s’è data eccessiva pubblicità alla sua imputazione; e ingiusto perché chi ha un diritto da tutelare per trovare protezione nella giustizia non può aspettare la media di otto anni (è quella indicata dal giornale inglese: il triplo di durata della media europea). Ed il danno della mancata protezione è già avvenuto per tutte le conseguenze economiche che si sono verificate nel lasso di tempo che ha coinciso con la lunga attesa, soprattutto a danno della parte economicamente più debole.
Se vogliamo possiamo aggiungere le notizie intorno alla cure imposte da singoli magistrati secondo il metodo Stamina. Notizie che in genere appaiono soprattutto su La Stampa (un giornale che meritoriamente s’è impegnato in questa battaglia contro la preoccupante ondata d’oscurantismo e d’irrazionalità in crescita nella nostra società), e che si sono moltiplicate in queste settimane. Il fatto che possa considerarsi legittimo e ragionevole il tipo di procedimenti che permette tali sconfinamenti del sistema giudiziario (v. l’intervista del 25 luglio su La Stampa del membro del direttivo della scuola superiore della magistratura Beniamino Deidda), e (peggio) il fatto che ciò probabilmente sia esatto, la dice lunga sulla crisi di un settore delicatissimo dell’ordinamento statale.
Sono antiche e sempre rinnovate le discussioni intorno alla crisi della giustizia in Italia: un tema che in quest’ultimo ventennio è in parte uscito dai ristretti dibattiti tra specialisti per divenire uno degli aspetti più incandescenti, talora più palesemente strumentalizzati, del dibattito politico. In questa sede cercherò di evitare ogni sconfinamento, diciamo così, nella “politica”. Anche se il problema, comunque lo si consideri, è di carattere politico, se non altro per la vera e propria aura d’intangibilità (e per alcuni di “sacralità”) che ha assunto questo settore particolare dell’apparato statale costituito dalla magistratura, troppo spesso concepita (ed autorappresentata) come forza salvifica di un’umanità viziosa. Qui interessa mettere a fuoco un aspetto del problema che attiene a quel processo di “fallimento dello Stato” su cui a più riprese sono intervenuto su Mondoperaio.
Questo attiene essenzialmente al costo di tale crisi, anzitutto in termini di fortissimo freno agli investimenti esteri. L’Economist, che ovviamente centra il suo articolo su questo punto, non fa che riprendere una litania ripetuta in tutte le sedi e da tutti coloro che hanno voce in capitolo: nell’economia globalizzata, dove in generale sono aumentate le libertà di localizzazione delle imprese, l’Italia è un paese sostanzialmente tagliato fuori dal flusso d’investimenti sovranazionale per l’incertezza del suo sistema giudiziario. Non sono solo i tempi lunghi, praticamente equivalenti per i tempi dell’economia a un deni de justice: ma sono anche i grandi margini d’incertezza in campo penale (tali da minacciare direttamente gli eventuali amministratori stranieri) a sconsigliare di localizzare le proprie attività economiche nel nostro paese. E del resto non occorre scomodare Weber per sapere che la storia del moderno capitalismo è strettamente intrecciata alla costruzione dello Stato moderno ed alle certezze di un moderno diritto formale-razionale: proprio quello che non c’è più in Italia, con un disordine legislativo la cui patologia è divenuta un altro fattore esplosivo.
Annotava recentemente Sabino Cassese, in una delle sue ultime riflessioni sulla debolezza dell’ordinamento statale italiano, come la magistratura italiana sia stata chiamata ad una serie di supplenze di notevole dimensione. In effetti senza il corpo di quei consiglieri di Stato o avvocati dello Stato che si trovano oggi a vertici di molti ministeri la macchina statale funzionerebbe ad un livello ancora più basso di quello attuale. A dirigerla infatti appare ormai del tutto inadeguato quel vertice burocratico totalmente deprofessionalizzato a seguito di una serie di riforme, che non esiterei a definire suicide, portate avanti in quest’ultimo ventennio da tutto il vertice politico, di qualsiasi colore sia stato. Ma queste funzioni di supplenza sono pagate dal venire meno, oggi, della funzione centrale dell’ordinamento giudiziario: quella di rendere giustizia.
La stessa grande battaglia per la moralizzazione della vita pubblica e amministrativa, la lotta contro la corruzione, costituiscono certo un aspetto su cui la magistratura gode di una vasta delega da parte dell’opinione pubblica, con il formidabile supporto dei media, affamati anzitutto di scandali e di notizie clamorose. Ma anche questa azione, in una certa misura, rientra nelle funzioni di supplenza di cui parlavo: perché rivela la patologica incapacità delle strutture ordinarie dello Stato e dell’amministrazione pubblica (per non parlare di quei centri permanenti di disfunzione ed inefficienza, se non d’illegalità, che sono le aziende private in mano pubblica) d’assicurare una gestione corrente che renda eccezionale l’intervento penale.
In questo quadro è dunque giusto riconoscere i motivi che oggettivamente hanno appesantito l’opera della magistratura, indebolendone le funzioni ordinarie (“applicare il diritto e render giustizia”). Così come non si può non sottolineare con molta forza il ruolo perverso degli ordini professionali e dello smisurata corporazione degli avvocati nel contribuire all’insabbiamento di ogni riforma che abbia cercato di snellire il processo civile. Il numero di coloro che dei litigi processuali vivono è troppo elevato rispetto agli standard europei per non coglierne le conseguenze negative. Ciò detto, si pone comunque un problema d’efficienza per l’organico dei magistrati. Un problema peraltro poco illuminato e del tutto evitato da quei cacciatori professionali di scandali o pseudoscandali delle varie “caste”: il tema è infatti un po’ rischioso. Anzitutto in ragione della sacertà assunta dalla magistratura.
Gli standard d’efficienza del nostro sistema giudiziario, come di ogni altro corpo dello Stato, devono dunque fondarsi su criteri oggettivi ed essere assicurati da un sistema disciplinare che nulla ha a che fare col principio costituzionale dell’indipendenza dei giudici: la quale è indipendenza della funzione giudicante dal potere politico e dal suo arbitrio, e che dev’essere sottoposta a criteri di trasparenza.
Come avviene molto spesso, gli esiti sbagliati sono uno dei possibili sviluppi da premesse giuste. Si pensi solo alla stagione dei grandi processi contro la mafia e la delinquenza organizzata cui sono legati i nomi di alcuni di quei grandi magistrati, ora ammazzati, oggetto di culto collettivo benchè allora osteggiati dai loro colleghi “impegnati a sinistra”. Fu un’azione giusta e utile, quali che fossero i costi: e il risultato positivo è stato evidente. Ma – man mano che da questi processi si è passati ad altri tipi di processi sempre più spettacolarizzati (e da cui talora sono sortiti rapidi quanto clamorosi passaggi dalle procure alla vita politica) – la loro utilità giudiziaria e sociale s’è venuta indebolendo rispetto al clamore mediatico: sino al vero e proprio errore di un processo dalle radici politiche come quello intentato a Palermo contro Andreotti, ed ora allo scandalo di un processo tanto inutile quanto discutibile (per il consapevole sconfinamento in un’area che è squisitamente e necessariamente politica), come quello sulla trattativa Stato-mafia.
Quanto è costato in termini di risorse il processo ad Andreotti, quanto costa oggi il tentativo d’incastrare Mancino, quanto è costato il processo Ruby? I sepolcri imbiancati s’indigneranno per domande del genere: ma ricordiamo a tutti che sono domande necessarie, che in genere si evitano con la copertura di quell’altra farsa che è l’obbligatorietà dell’azione penale. E’ inutile ripetere sino alla noia che questa è un vuoto simulacro, giacché il giudice sceglie sempre – è costretto a scegliere – tra l’infinità delle notizie di reato e la limitatezza delle risorse a disposizione – anzitutto il suo tempo – per indagare e perseguire. Se s’investono migliaia di ore d’indagine e d’interrogatori, la raccolta di una documentazione eccezionale, la quantità di personale impegnato a vari livelli, occorre che la gravità e l’importanza del reato giustifichino tale impegno perché esso non diventi accanimento. Mentre invece troppo spesso ci troviamo di fronte a scelte che sembrano giustificate dal clamore del caso e dall’importanza (anche mediatica) degli imputati, piuttosto che dalla serietà dei casi perseguiti.
Il recente episodio di un presidente della Repubblica federale tedesca oggetto di una persecuzione analoga (con analoga semi-collusione tra procure e media) mostra che il fenomeno non è solo italiano. Come non solo locale è l’intreccio tra persecuzione penale e ruolo dei media. Naturalmente l’importanza dell’obiettivo è data dalla rilevanza sociale dell’evento. Il moderno Stato di diritto non ha bisogno di sentenze esemplari, ma di molte e buone sentenze a fronte dei molti conflitti e dei reati più gravi e pericolosi.
Gli errori giudiziari sono inevitabili, ma non è inevitabile un tasso troppo alto e ripetuto di errori corretti in progress a causa di una bassa produttività delle procure. Perché di produttività anche in questo caso si tratta: almeno in una certa misura. Il nostro sistema pubblico oggi è ossessionato dai problemi di produttività (e ne sa qualcosa la ricerca scientifica, oppressa da meccanismi molto burocratici di valutazione sovente assolutamente incapaci d’identificare il reale contenuto di ciò che dovrebbe essere valutato). Ebbene, non fa parte dell’intangibile indipendenza del magistrato – che deve restare totale nel processo che porta a formare le sue decisioni giudiziarie – il controllo della quantità e della qualità del lavoro svolto da ciascun magistrato?
Fermo restando che si richiede una grande cautela e una costante attenzione alle circostanze specifiche, si possono assumere dei criteri di valutazione. Quanti sono i giudizi portati a sentenza da ciascun magistrato in un dato arco di tempo, e in quale settore del diritto (ognuno comportando in linea di massima una diversa complessità e richiedendo parametri specifici)? Quante sono le indagini preliminari sfociate in un rinvio a giudizio, e quanto sono durate? E quante di queste sono sfociate in una condanna di primo grado? Quante delle sentenze di un magistrato sono state riformate parzialmente o totalmente in secondo grado? Quante delle sentenze di secondo grado sono state confermate in Cassazione? Non dubito che un buon gruppo di magistrati, con sufficiente esperienza e conoscenza dell’intero settore della giustizia, saprebbe introdurre un insieme di criteri di valutazione e di altrettanto necessari temperamenti e ulteriori qualificazioni (quanti procedimenti erano comunque necessari per motivi di “politica del diritto” assunti consapevolmente come tali, quanti erano difficili e tuttavia tali da giustificarsi etc. etc.).
Gli automatismi di carriera sono stati il frutto del grande compromesso tra Dc e magistrati negli anni della prima Repubblica. Un compromesso che non esiste più nella realtà e che deve dar luogo, in un paese affatto diverso, ad un altro complessivo disciplinamento delle carriere e delle funzioni, legate tutte – in una certa misura e non in toto – ai curricula dei singoli magistrati. Come definire tali curricula sarà compito degli specialisti: ma a questo si deve arrivare. E che non sia facile lo potrebbero provare le reazioni che sicuramente un’idea del genere susciterebbe nel nostro paese. Non solo per le ovvie resistenze corporative, ma anche per quel misto di ideologia e lotta politica che s’esprime oggi nel “partito dei giudici”: un partito di cui pochi hanno capito il carattere intimamente premoderno, come ogni politica che tenda troppo immediatamente a saldare giustizia e morale.