Il premio Nobel per la Letteratura, Gabriel García Márquez, l’autore di Cent’anni di solitudine, sarà ricordato anche per il suo impegno politico. Un impegno nato di getto, contro le dittature in Sud America e per la libertà e la giustizia sociale, sin da quando fu assassinato il leader liberale colombiano Jorge Eliécer Gaitán il 9 aprile del 1948. In Colombia si scatenò una guerra civile e “Gabo” cominciò la professione di giornalista come forma di resistenza democratica. Aveva non solo il bisogno di guadagnarsi da vivere, ma anche una gran passione politica e una profonda conoscenza della storia contemporanea latinoamericana.
“Gabo” non ha mai militato in nessun partito, anche se ne ha sostenuto diversi. A Caracas, per esempio, quando gli è stato conferito nel 1972 il premio letterario “Rómulo Gallegos” per il romanzo Cent’anni di solitudine, García Márquez donò i 100mila dollari del riconoscimento al Movimento al Socialismo (Mas) dell’amico Teodoro Petkoff.
Marquez, che diceva di volere portare con sé in un’isola deserta La Metamorfosi di Kafka e Le mille e una notte, abbracciava nel suo “realismo magico” un’idea della letteratura e del mondo: per quanto abbia sempre negato di essere comunista, nonostante un legame strettissimo con Fidel Castro, confessò al suo amico Plinio Apuleyo Mendoz il suo desiderio che il mondo fosse “socialista, e credo — disse — che prima o poi lo sarà”. E nel discorso che pronunciò a Stoccolma nel 1982, quando gli fu consegnato il Nobel, disse che “noi inventori di favole, che crediamo a tutto, ci sentiamo in diritto di credere che non è ancora troppo tardi per intraprendere la creazione di una nuova e devastante utopia della vita, dove nessuno possa decidere per gli altri addirittura il modo in cui morire, dove davvero sia certo l’amore e sia possibile la felicità, e dove le stirpi condannate a cento anni di solitudine abbiano finalmente e per sempre una seconda opportunità sulla terra”. E vent’anni prima, parlando della rivoluzione cubana, aveva detto di continuare a credere che “il socialismo sia una possibilità reale”.
Ma il socialismo di “Gabo”, che fu pure amico di Felipe Gonzalez (ma anche di Bill Clinton), era assai lontano da quello della tradizione europea, che sia nel modello collettivistico leninista che in quello socialdemocratico trae dal marxismo le origini, ponendo lo Stato al centro della propria azione politica. Piuttosto il socialismo di Garcia Marquez è un rimpianto della Hispanidad soverchiata dal capitalismo industriale statunitense: non a caso la sua grande ossessione era la politica estera degli Stati Uniti.
Dal 1974 al 1980, infatti, scrisse molti articoli a sostegno della sinistra latinoamericana sulla rivista Alternativa. A tal proposito si deve ricordare un bellissimo articolo scritto “a caldo” commentando i drammatici fatti del golpe militare cileno l’11 settembre 1973: “Nell’ora della battaglia finale, con il paese alla mercé delle forze della sovversione, Salvador Allende continuò afferrato alla legalità. La contraddizione più drammatica della sua vita fu quella di essere, contemporaneamente, nemico della violenza ed appassionato rivoluzionario, e credeva di averla risolta con l’ipotesi che le condizioni del Cile consentivano una evoluzione pacifica verso il socialismo, all’interno della legalità borghese”.
“Gabo” in definitiva esprimeva essenzialmente il volontarismo politico dell’anarchismo spagnolo degli anni ’30 del Novecento, intriso del culto dei leader rivoluzionari: del romanticismo dei libertadores come José Martì e Simon Bolivar (o del nostro Garibaldi), del populismo delle rivoluzioni dei peones, con il richiamo alle teorie sull’arretratezza latino-americana a causa dell’imperialismo yankee, ma quasi indifferente all’esperienza di Hugo Chavez in Venezuela, forse perché segnata dai germi della violenza autoritaria.
Un socialismo libertario, quello di Marquez, e per questo un po’ utopico: certamente ispirato dalle atmosfere magiche dei suoi romanzi, ma di schietta matrice popolare e democratica, alieno da dogmatismi, e soprattutto dalle influenze neoliberiste che ai nostri giorni corroborano il paradigma delle “due destre”. E d’altronde non è necessaria una certa dose di utopia per i tempi che viviamo, per contrastare la “dittatura” dei mercati e della finanza?
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