Prossimità e distanza sono due chiavi di lettura per comprendere il rapporto di molti di noi con il mondo di Fidel Castro. Da un lato il suo è un volto familiare, un simbolo del Sud del globo, l’incarnazione di una rivoluzione che si fa Stato. Dall’altro avvertiamo la lontananza dai comportamenti liberticidi di quel regime. Il nesso modernità-rivoluzione è forte; altrettanto forte è quello fra modernità e diritti umani, proclamati per la prima volta nel 1789, pochi giorni dopo la presa della Bastiglia.
Il secolo breve si è probabilmente concluso nel 1989, con la caduta del muro di Berlino. Esso veniva considerato da alcuni osservatori come il secolo del comunismo, iniziato con la rivoluzione bolscevica del 1917. Di quel fenomeno politico sembra essere rimasta appena l’eco: eppure nel contempo proprio il Novecento pare interminabile. E’ evidente ad esempio dinanzi alle reazioni suscitate dalla morte del lìder maximo. Prossimità e distanza, appunto.
Rimasi a suo tempo colpito da parole affini pronunciate da figure tanto diverse come Giovanni Paolo II, Gorbaciov, Norberto Bobbio. Il concetto era che con la fine del comunismo non finivano i problemi e i drammi a cui esso aveva provato a rispondere. Basti pensare al libro-testamento di Tony Judt (“Guasto è il mondo”); basti guardare alla folla dei disperati che fuggono dalla miseria e dalla guerra, ai volti di quelle bambine e di quei bambini. Volti inermi, insieme sofferenti, colmi di disperazione e non privi di una tenue speranza. Volti che supplicano.
A noi resta fra l’altro il compito di studiare e discernere: Mao non era Che Guevara, Mandela non era Castro. E che dire del Mahatma Gandhi? Del resto uno dei luoghi decisivi della rivoluzione cubana fu la “Sierra”, anche in contrapposizione ai ribelli del “llano”. La tensione fra libertà e uguaglianza, fra giustizia e autorealizzazione di ciascuno e di ciascuna contraddistingue ancora i nostri giorni: memori però della lezione della nonviolenza rispetto alla stessa aggressività delle parole o dei cinguettii virtuali.
De nobis fabula narratur: perchè il Novecento è stato anche “il secolo socialdemocratico”: e contrariamente a quanto pensammo in molti dopo la fine dell’Urss, allora non fu la socialdemocrazia a trionfare. Forse anche perchè l’Urss fu abbattuta da Reagan e dalla Thatcher, e non da Schmidt e da Mitterrand (e neanche da Craxi). La nostra ottica, peraltro, continua ad essere eurocentrica, come dimostra la nostra afasia rispetto agli esiti spesso paradossali delle rivoluzioni extraeuropee. L’eredità di Mao, piaccia o no, è il rampante capitalismo cinese, la cui forma politica fatichiamo ancora a decifrare. Quella di Mandela, invece, è il cesarismo populista di un leader poco presentabile. Intanto la socialdemocrazia in Europa non sta molto bene. Forse guarirà solo se comincerà a ragionare in un’ottica globale. .