Nel 1988 al posto del sottosegretario Faraone c’ero io. A Trento volevano celebrare il ventennale del Sessantotto, e Marco Boato mi aveva invitato a partecipare. Avevo dei dubbi sull’opportunità di accettare, ma alla fine mi convinse il magnifico rettore, che cavalcò uno dei cavalli di battaglia della mia generazione, quello del rapporto da ristabilire fra movimenti e istituzioni.
Quando arrivai a Trento, vidi che insieme con Boato ad aspettarmi c’era un nutrito gruppo di reduci delle prime occupazioni della Facoltà di sociologia. Pensai ad un’accoglienza affettuosa (molti li conoscevo da allora), ma invece mi trovai coinvolto in una specie di assemblea volante. E pazienza se i giovani barbuti di vent’anni prima ora erano ultraquarantenni un po’ appesantiti.
Secondo il rito antico, Boato introdusse, sottolineando appunto il significato della mia presenza “istituzionale”. Ma subito dopo intervenne un “compagno” (nel frattempo finito all’ufficio del personale della Fiat) che mi chiese se ero disposto a partecipare, la sera stessa, ad una cerimonia fuori programma.
Volevano scoprire una lapide (finta) che sulla facciata dell’università doveva commemorare l’epopea sessantottesca. Non capivo se si trattasse di una goliardata, e comunque non sapevo come rispondere. Finché il “compagno” non si lasciò scappare un’ultima battuta rivelatrice: “Così stasera tagli il nastro, e domani in assemblea non parli”.
L’episodio mi è tornato in mente a proposito delle polemiche di cui è stato oggetto in questi giorni il mio pregiato successore. Ora come allora prevale lo stereotipo per cui al sottosegretario spetta solo tagliare i nastri: uno stereotipo che evidentemente accomuna studenti rivoluzionari del Sessantotto e maestrine legalitarie del terzo millennio.
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Gustosa questa storia, con le parti in commedia assegnate sul campo. Anche per questo, sempre nell’andirivieni presente/passato, viene in mente quell’assemblea al liceo Tasso di Roma occupato dagli studenti e ‘partecipata’ dai genitori (maschi) di alcuni di loro, nel 1968 e dintorni, quando la redazione rigorosamente collettiva di un comunicato “di lotta” con inserzione controllata di espressioni e termini – ‘sistema’, ‘classe’ , ‘integrazione’ (ovviamente: contro la), ecc. – fu interrotta da un grido dell’editore Vito Laterza, padre di un alunno: “Un momento, la ‘classe dirigente’ siamo noi!”. Dove magari oggi, dopo quasi cinquant’ anni – ben oltre il “lungo Sessantotto” italiano, a suo tempo notato da Lucio Magri – ci può venire qualche curiosità sul rapporto in questo campo (comunicati o no) fra prototipi e serialità e qualche dubbio sugli adulti (in francese: agés) più che sui ragazzi (e anche su Faraone).
Nella mia esperienza di professore ho sempre evitato di partecipare alle assemblee studentesche per il semplice motivo che gli studenti devono studiare e dibattere con conoscenze, competenze e capacità. Le assemblee, garantite dai politici, hanno dato origine ad una classe dirigente di incompetenti, presuntuosi e arroganti cioè dei fascistelli in erba anzi in servizio permanente, perché sarà difficile schiodarli dalla sedia conquistata con molte genuflessioni al capo di turno e, intanto, l’Italia affonda.