La polemica suscitata dal risultato, nella provincia di Bologna, delle consultazioni per la selezione dei candidati e delle candidate del Partito democratico alle elezioni parlamentari del 2013 mostra quanto sia importante intendere correttamente lo strumento delle cosiddette “quote” come mezzo per promuovere l’effettiva eguaglianza delle opportunità tra i sessi.
I fatti che hanno suscitato la polemica sono i seguenti. In base al numero di voti ottenuti, la graduatoria emersa dalle consultazioni nella provincia di Bologna vede alle prime otto posizioni i/le seguenti candidati/e: Andrea De Maria, Marilena Fabbri, Claudio Broglia, Rita Ghedini, Donata Lenzi, Sandra Zampa, Sergio Lo Giudice, e Paolo Bolognesi.
Il Partito democratico aveva deciso, tuttavia, che le liste elettorali sarebbero state composte garantendo l’alternanza tra donne e uomini (regola dell’alternanza). Ipotizzando, per semplificare le cose, una lista elettorale per la provincia di Bologna, l’ordine dei candidati e delle candidate sarebbe pertanto il seguente: De Maria, Fabbri, Broglia, Ghedini, Lo Giudice, Lenzi, Bolognesi, e Zampa. Donata Lenzi sarebbe preceduta da Sergio Lo Giudice, pur avendo ottenuto più voti di lui, e Sandra Zampa sarebbe preceduta da Sergio Lo Giudice e da Paolo Bolognesi, pur avendo ottenuto più voti di entrambi. Comprensibilmente, Lenzi e Zampa hanno sollevato delle obiezioni (in particolare Zampa, che, in base alla riassegnazione dei posti in graduatoria verrebbe a occupare il primo posto, altrimenti spettante a Bolognesi, che, in base ai risultati previsti, non assicura l’elezione).
La regola dell’alternanza ha come conseguenza di fatto che per l’accesso in graduatoria le candidate donne competono con le sole candidate donne e i candidati uomini con i soli candidati uomini, i due gruppi (donne e uomini) entrando in competizione solo al vertice, ossia per decidere se il primo posto in graduatoria spetti a una donna o a un uomo.
Per valutare la controversia e come essa debba essere risolta è della massima importanza tener conto di quali siano le ragioni che motivano l’adozione della regola dell’alternanza. È facile, infatti, cadere in errore. Alla base dell’adozione della regola dell’alternanza non vi è, o almeno non dovrebbe esservi, l’idea che in una società perfettamente giusta – che in questo contesto significa una società non sessista, in cui le opportunità effettive di donne e uomini fossero eguali – negli organi elettivi donne e uomini sarebbero rappresentate/i in eguale misura. La perfetta eguaglianza dei risultati tra i sessi non può rappresentare un ideale di giustizia, proprio perché attribuisce importanza a un fattore – il sesso – che in una società giusta non dovrebbe avere alcuna importanza nel determinare i risultati delle persone. Sostenere il contrario significa difendere una concezione particolare dell’eguaglianza sostanziale che si focalizza sui gruppi sociali (che tende a ipostatizzare e cristallizzare, essenzializzando le differenze tra le persone che ne fanno parte) e non sulle persone. Semmai, in una società giusta le persone scelte per ricoprire gli incarichi elettivi dovrebbero essere le persone più qualificate a ricoprire quegli incarichi (dove le qualifiche devono essere definite in relazione agli incarichi) a prescindere dal sesso (e da altri caratteri non rilevanti).
Con quanto ho appena detto non intendo sostenere che in una società giusta non potrebbe realizzarsi l’eguaglianza dei risultati tra i sessi; ma solo che ciò non sarebbe un requisito di giustizia necessario. In una società giusta, in cui le opportunità effettive di tutte le persone, donne e uomini, fossero eguali, sarebbe ben possibile che i risultati delle donne fossero migliori di quelli degli uomini o viceversa. Ciò significa, tra l’altro, che la disparità tra i risultati di donne e uomini non è necessariamente un sintomo di ingiustizia, per quanto sia sensato ritenere, in base a un’analisi profonda dell’attuale assetto sociale, che oggi essa lo sia.
Ritengo che alla base dell’adozione della regola dell’alternanza da parte del Partito democratico vi sia stata l’idea – o, meglio, la consapevolezza, trattandosi di un’idea che corrisponde al vero – che nel nostro Paese, attualmente, vi siano molte barriere di varia natura che svantaggiano le donne rispetto agli uomini nell’accesso alle posizioni di potere. La presenza di simili barriere ha come conseguenza che donne e uomini non competono ad armi pari: le donne sono sistematicamente svantaggiate.
La funzione della regola dell’alternanza è, dunque, quella di cercare di riequilibrare i rapporti di forza, correggendo l’effetto di quegli ostacoli che rendono la competizione non equa. Riequilibrare non dovrebbe qui significare parificare, bensì eliminare quelle differenze dovute a fattori discriminatori.
Di fatto, come si è detto, l’effetto della regola dell’alternanza è invece l’eliminazione della competizione tra donne e uomini. La regola dell’alternanza cerca di correggere un problema di eguaglianza delle opportunità garantendo di fatto un’eguaglianza dei risultati. In ciò essa è uno strumento imperfetto. Forse strumenti migliori potevano essere ideati. Si poteva ad esempio attribuire alle candidate donne un bonus voti (fisso o, ancora meglio, proporzionale ai voti effettivamente ottenuti) da sommarsi a quelli effettivamente ottenuti. Tuttavia, le ragioni che motivano l’adozione della regola dell’alternanza sono chiare e valide, almeno a giudizio di chi scrive.
Proprio alla luce delle ragioni che motivano l’adozione della regola dell’alternanza, si capisce, tuttavia, come sarebbe assurdo applicare quella regola in un modo che, di fatto, sfavorisca le candidate donne che in un dato contesto locale si sono mostrate più forti dei candidati uomini. Ciò risulterebbe in una perversione della regola. Ciò, comunque si spieghi il buon risultato ottenuto dalle candidate donne a livello locale, sia che lo si faccia dipendere dal fatto che in quello specifico contesto non operano le barriere che a livello nazionale svantaggiano le donne, sia che lo si faccia dipendere dal fatto che le candidate donne erano tanto più forti dei candidati uomini da riuscire a superare persino lo svantaggio dovuto al loro essere donne. Non mi sembra vi siano ragioni, invece, di ritenere che quel risultato possa essere dovuto dal fatto che in quello specifico contesto operino barriere che svantaggiano gli uomini; basti pensare che su quattordici tra candidate e candidati otto erano uomini (più interessante il fatto che due dei candidati uomini, tra cui Lo Giudice, fossero dichiaratamente omosessuali, dunque essi stessi appartenenti a un gruppo sociale socialmente svantaggiato).
Così come in un contesto in cui senza bisogno di alcun intervento correttivo le donne riuscissero a ottenere un risultato eguale o superiore a quello degli uomini l’adozione della regola dell’alternanza o di un qualsiasi altro meccanismo di “quote” non avrebbe alcun senso, allo stesso modo quella regola, quand’anche adottata a livello generale in base a una valutazione ragionevole delle circostanze, non dovrebbe essere applicata in quei casi particolari in cui l’esito delle consultazioni dimostri che essa non era necessaria e in cui, addirittura, la sua applicazione risulterebbe in uno svantaggio (ulteriore) ai danni delle donne.
Da queste riflessioni suscitate da un caso particolare traggo una conclusione generale: strumenti come le “quote”, per quanto sollevino alcuni problemi, possono essere adottati in mancanza di efficaci strumenti alternativi per promuovere l’effettiva eguaglianza sostanziale tra i sessi in un contesto in cui è sensato ritenere che vi siano fattori diffusi che sistematicamente svantaggiano un sesso rispetto all’altro (su ciò v. anche Nicola Riva, Eguaglianza delle opportunità, cap. 3, par. 6.3); quegli strumenti, tuttavia, quand’anche adottati, non devono essere applicati quando la loro applicazione si tradurrebbe in uno svantaggio per la categoria ritenuta già sfavorita nel cui interesse essi sono stati adottati.