Nel lontano 1964 il grande studioso tedesco Böckenförde enunciò il suo teorema: “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà”. E spiegava poi che tale Stato può esistere solo in quanto la libertà da esso garantita riesce ad autoregolarsi: altrimenti, ricorrendo alla coercizione, rinuncerebbe alla propria liberalità.
Il tema dei “fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale” è stato poi al centro del celeberrimo confronto pubblico del 2004 fra il filosofo Jürgen Habermas e l’allora cardinale Joseph Ratzinger. Habermas ha sostenuto, come è noto, che “le pratiche democratiche sviluppano una propria dinamica”, guardando nel contempo in maniera problematica all’estendersi del potere dei mercati e di altre forze che sfuggono proprio alle dinamiche del processo democratico.
C’è in ogni caso un passaggio del discorso di Böckenförde che andrebbe riletto e sottolineato: “Lo Stato che non confidi più nelle forze vincolanti interiori, o che ne sia stato privato, viene spinto a elevare a proprio programma la realizzazione dell’utopia sociale”, cioè di un benessere diffuso. Ed ecco la domanda cruciale: “Su che cosa si appoggerebbe, questo Stato, il giorno in cui andasse in crisi?”. Detto altrimenti: dinanzi alla crisi del Welfare State, quale può essere il fondamento dello Stato liberaldemocratico?
In effetti ormai da tanti lustri i “trenta gloriosi anni” del dopoguerra sono tramontati e le pratiche democratiche dei paesi occidentali ne risentono molto. Ne risente la sinistra, che non può più proporre, per dirla con Giorgio Ruffolo, l’utopia concreta della socialdemocrazia. E ne risente il campo moderato e conservatore, anch’esso sollecitato da spinte demagogiche o qualunquiste. Non riusciamo a fare i conti fino in fondo con il venir meno dello Stato sociale tradizionale (che pure aveva conosciuto diverse varianti, da quelle più efficienti ed eque alle forme clientelari e assistenziali). Non a caso, mi viene da aggiungere, da noi il Movimento 5 stelle fa leva sulla proposta di introdurre il “salario di cittadinanza”. Insomma: quelle che sembravano dispute accademiche mostrano tutta la loro capacità di “visione”.
In parte condivido l’analisi, ma la crisi della socialdemocrazia ha radici già nel’74 , quando la vittoria di Soares mostrò a tutto il modo quanto un popolo possa autodeterminarsi senza capovolgimenti autoritari, attraverso una coesione anche complessa di forze ed equilibri. Caro compagno, da ex-iscritto all’attuale Psi battuto dai Socailisti del No, dico che la lezione di soares resta un mnito ed uno stile, autodeterminarsi ed imbrigliare in regole flessibili il mercato, attarverso un ossequio procedurale ed un rilancio delal contrattazione nazionale, locale e una programmazione economica ispirata alla lezione di Steve, Forte e La Malfa. La sconfitta delle socaildemocrazie sta nell’aver assunto un modulo ibrido -borghese, senza una vera dialettica democratica . Leggi Sotelo ” El socialismo democratico” Taurus Edizioni, capirai che sotelo aveva previsto tutto. Non dimenticando Rosavallon e i suoi studi sull’autogestione, nonchè il suo ultimo” Controdemocrazia”. Avviate un dibattito interno, apritevi al Sud Europa ed alla esperienza Costa in Portogallo. Auguri.