Riportare la normativa limitativa delle cariche elettive a prima del decreto Martelli del 1990 non è possibile: la sentenza della Corte costituzionale sul ricorso De Magistris boccia il passatismo giuridico, e chi apparteneva al partito che espresse quel ministro della Giustizia – che si avvaleva nel suo dicastero di Giovanni Falcone – non può che gioirne.
Non è possibile che il punto di caduta di una posizione politica sia il proprio personalissimo interesse: se la Severino è ottima “tranne” per i condannati con sentenza successiva alla sua entrata in vigore, se la Severino va bene “tranne” l’abuso d’ufficio, se la Severino è ingiusta perché sospende i sindaci (o i presidenti di regione) “ma non i parlamentari”, abbiamo cucito un vestito sul corpo di un cliente interessato. Quando proponemmo il “tagliando al decreto Severino” non era una differenza quantitativa quella che ci interessava: non una parte invece del tutto, ma ciò che del decreto non era sostenibile alla luce dei principi costituzionali come interpretati dalla Corte.
È stato Sabino Cassese a notare l’eccentricità di una Corte legata ai precedenti in modo eccessivamente ossequioso. Eppure sono oltre vent’anni che la sospensione del condannato – con sentenza non ancora in giudicato – era passata indenne allo scrutinio della Consulta. Non ci voleva la Sibilla Cumana per immaginare che l’argomento dell’allontanamento del capo dell’amministrazione locale, nell’attesa che si chiarisse la sua posizione nei gradi di giudizio successivi al primo, sarebbe stato ancora una volta vincente, per di più in una Corte deficitaria dei tre giudici eletti dal Parlamento.
Invece margini di resistenza un po’ più solidi erano visibili nel novum del decreto Severino: quello per il quale, nel nostro dibattito, Spangher raccontava che fu inseguito sulle scale da un redattore del testo, deficitario di argomenti ma non di fiato: la candidabilità prima delle elezioni (dalle locali alla nazionale), la decadenza dalle cariche elettive per condanna definitiva (sia per le cariche regionali, sia per la carica parlamentare nazionale).
Qui il ddl Buemi (Atto Senato n. 1054, Disciplina della privazione dei diritti elettorali in attuazione dell’articolo 48, quarto comma, della Costituzione) ha saputo cogliere il fondamento giuridico più profondo della questione, riversando l’incandidabilità nell’interdizione e nella perdita dell’elettorato. Il testo coglie il motivo reale per il quale nel 1967 si era sentito il bisogno che fosse un giudice, e non un prefetto dipendente dell’Esecutivo, a decretare la cancellazione dalle liste elettorali e la conseguente ineleggibilità.
È diventato di moda, oggi, dichiarare che l’ostilità dei Costituenti per un governo forte era motivata dalla vicinanza cronologica con il fascismo, e che oggi tante guarentigie degli organi elettivi hanno meno senso rispetto all’esigenza che l’Esecutivo governi: ma un senso ancora c’è, nell’esigenza che la selezione delle candidature non le faccia un dipendente del governo uscente.
Le liste elettorali tenute dalle commissioni comunali devono essere modificate soltanto sotto dettatura di un giudicato penale: e non di un giudicato qualsiasi, ma di un giudicato che abbia apprezzato, nelle circostanze del fatto di reato accertato in concreto, motivi “individualizzati” di applicazione della pena interdittiva (e della sua durata): tutto ciò che non è avvenuto nel caso di Marcello Miniscalco, e tutto ciò per cui – al di là della scontata sentenza costituzionale su De Magistris (e domani su De Luca) – nel campo neutro di Strasburgo è ancora apertissima la partita dello Stato di diritto nella materia elettorale.
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