Fra tante chiacchiere sul “partito della nazione” da evitare, sull’Ulivo da rifare, sul bipolarismo da salvaguardare, tocca ad un anziano sociologo riportarci alla realtà.
Sul Corriere del 25 aprile Giuseppe De Rita ci fa presente che oggi, nella migliore delle ipotesi, il sistema politico-parlamentare è tripolare: e che comunque non c’è legge elettorale che tenga per debellare quel “tripolarismo reale” in cui oggi si incarna la nostra costituzione materiale.
Recita il sommario: “Il potere è diviso da tre soggetti: i professionisti del contrasto alla corruzione; gli uomini della comunicazione di massa, luogo di rimbombo delle campagne di moralizzazione; e gli inossidabili cacicchi che gestiscono il consenso locale”. Meglio non si poteva sintetizzare: salvo forse quel “diviso”, che più correttamente avrebbe dovuto essere scritto “condiviso”.
Non c’è conflitto divisivo, infatti, fra questi tre poteri: nel senso che i primi due non disturbano il terzo, che anzi – a quanto si legge alla vigilia delle elezioni regionali – prospera come mai avrebbe sognato di prosperare. E se si pensa che è su questa costituzione materiale che si fonda il sistema politico tripolare che rende difficilmente governabile il Parlamento in carica, c’è poco da scherzare sul metadone o sull’uomo solo al comando (che comunque non dovrebbe spaventare un ciclista appassionato come Romano Prodi).
Qui a Chieti, ad esempio, si vota per il rinnovo del Consiglio comunale e per l’elezione del sindaco. I manifesti formato gigante sono praticamente tutti di candidati del Pd: come non pensare alle lotte intestine nella Dc?
Rispetto alla dimensione locale, la divisione-condivisione ha fra l’altro un risvolto psicologicamente inquietante, che le persone semplici esprimono più o meno così: ma Renzi sa quel che accade qui…? Si ha, cioè, l’impressione di una sorta di dissociazione fra quel che si dice “a Roma” e il degrado che si vive in “periferia”.
Il professor Giuseppe De Rita rimane un faro di intelligenza, coerenza e spessore culturale nell’attuale panorama culturale del nostro malridotto Paese
De Rita ci informa che in Italia esiste una tripartizione del potere fra sostenitori a oltranza del giustizialismo e della lotta alla corruzione come principale indirizzo politico, organizzatori del rimbombo mediatico delle campagne di moralizzazione e gli «inossidabili gestori del consenso locale elettorale», i cacicchi. Naturalmente c’è del vero in questa rappresentazione. Ma ha un difetto, quello di fermarsi a una fotografia statica della situazione politica italiana. I lottatori a oltranza, i giustizialisti, costituiscono una costante storica ormai: sono in gran parte gli eredi del massimalismo così ben gestiti dal PCI togliattiano (sul versante economico-sociale), così mal gestiti dal PCI berlingueriano che li ha dirottati verso il moralismo più sciocco e inconcludente, sopravvissuti tali e quali al PCI e divenuti una massa oscura (una nebulosa) vagante fra il PD e i tanti partiti e movimenti giustizialisti nati nell’ultimo quarto di secolo. Anche il secondo gruppo, quello dei partecipanti permanenti al rimbombo mass-mediatico sono una costante. Come conseguenza, l’intero assetto socio-politico italiano ha iniziato a regredire ad un altro tempo, quello dei piccoli poteri su base locale, visto che il potere nazionale è perso fra inutili e dissennate diatribe sulla corruzione (diatribe che non impediscono poi che essa prosperi impunemente, vista l’inconsistenza della politica e la sua cronica incapacità decisionale). Qualche volta però sorgono dei tentativi per uscire fuori da tale insensata palude: l’ultimo – per ora – è quello di Renzi e di una parte non secondaria dell’elettorato del PD e, probabilmente, di settori più ampi di tutto l’elettorato. Tale tentativo cerca di far funzionare, stabilizzandolo, il meccanismo che da più di due decenni sta cercando di prendere corpo, quello del bipolarismo, il quale, in ultima istanza, rimanda al bipartitismo. Tale tentativo è tutt’altro che morto. Naturalmente, se funziona; da noi è però fermo sempre a metà strada. Ora, è bene ricordare che nei paesi che siamo abituati a considerare sedi del bipartitismo sono sempre esistiti più partiti, oltre ai due principali. In Gran Bretagna, ad esempio, il Labour Party è riuscito, nel 1923, a scalzare il vecchio Partito liberale, sostituendosi ad esso (ma governando a lungo con i liberali) e costituendo l’altro partito contrapposto ai conservatori. Ma durante la lunga stagione thatcheriana (1979-1990) il Labour scese al 27%; nello stesso periodo i Liberal Democrats raggiunsero il 25% dei voti e avrebbero surclassato i laburisti se non fosse iniziata la lunga fase della riscossa blairiana, che fece ritornare i Laburisti al potere. Questo per dire che, anche nei sistemi bipolari, o i partiti sono in grado di interpretare le esigenze nuove che maturano nella società, o vengono superati da nuove forze politiche che li sostituiscono e ne prendono il posto; comunque sono a volte costretti a governare in alleanza ad un partito più piccolo, se non ottengono un risultato elettorale sufficiente. Il problema italiano è che l’unica forza politica sorta di recente, il M5S, si muove fra populismo e contestazione radicale della funzione di governo, senza un progetto né una collocazione ben definita. Rimangono le due forze principali in campo, che distano nei sondaggi, molti lo dimenticano, appena di un 4-7%. È nota pure la straordinaria capacità del leader della destra di rimontare le situazioni più sfavorevoli. Ma Berlusconi, è lui quel leader, non ha mai dimostrato di possedere buone doti di governo e, forse, neppure ha voglia e interesse a governare, al di là di alcune non irrilevanti questioni che interessano le sue aziende. Renzi invece – e il nuovo PD – è partito lancia in resta con un programma molto vasto di riforme costituzionali-istituzionali e di interventi sugli assetti della vita sociale: rimane da vedere se l’insieme di coloro che l’osteggiano (il conservatorismo e la difesa dell’esistente si trovano a destra come a sinistra) sia tale da impedirgli di governare e addirittura riesca a disarcionarlo. Al momento tutto mi sembra in movimento ed è per questo che la fotografia non dice nulla su ciò che si muove. Ma se fossimo alla fine dell’esperimento condotto dall’attuale Partito democratico, allora la foto di De Rita costituirebbe appena l’immagine iniziale di un degrado politico e sociale di cui cui non è dato di vedere il punto d’arrivo.