La parola d’ordine che gira oggi nel mondo dell’architettura è sempre più “il Novecento ha salvato i centri storici italiani, adesso bisogna salvare le periferie”. Da cui l’adesione di uomini politici, architetti e intellettuali à la mode alla nozione di “rammendo delle periferie” coniata da Renzo Piano: nonchè per l’appetibilità dei rammendi, vista l’annunciata elargizione da parte del governo d’una prima tranche di finanziamenti di 500 milioni: che, se sono una briciola rispetto alla immensità del problema da affrontare, rispetto ai budget correnti sono comunque una montagna di soldi.
Ciò detto, tre i problemi. Uno: dire che il Novecento ha salvato i centri storici è completamente sbagliato. La verità è invece che il Novecento ha ideologicamente preteso di salvare i centri storici credendo che farlo significasse riempirli di divieti, vincoli e quant’altri provvedimenti solo in negativo: mentre così agendo li ha invece museificati togliendo loro la vita (quindi li ha condannati a morte). Tanto che negli ultimi quarant’anni, cioè dopo il 1972 della delega delle competenze urbanistiche alle Regioni, il numero degli abitanti e delle imprese commerciali è diminuito nei centri storici di circa il 60%. Né entro nel merito della condizione d’incipiente rovina in cui giacciono moltissimi palazzi e case dei centri storici nei paesi minori della provincia italiana: visitare per credere.
Non parlo inoltre dei circa 6000 degli 8100 comuni italiani oggi deserti o rimasti con poche centinaia di abitanti, il che significa che più di due terzi del territorio italiano è abbandonato a se stesso con gli effetti di cui tutti sappiamo: di ieri (e ancora una volta) le alluvioni in Toscana. Nemmeno discuto del destino che avranno le oltre 100.000 tra chiese, basiliche, pievi, oratori ed altri edifici religiosi presenti sul territorio, gli stessi che al loro interno conservano milioni di manufatti artistici o più semplicemente storici: un patrimonio immenso custodito oggi da un clero sempre più esiguo di numero e con un’età media di circa settant’anni.
Due: il completo fallimento delle politiche urbanistiche italiane, lo stesso che sempre dopo il 1972 si è andato aggravando e cronicizzando per aver perdurato a credere (urbanisti e politici) nella distinzione – fissa nei piani regolatori – tra un centro storico rigido e immodificabile e una periferia, al contrario, flessibile e modificabile: correlando il tutto con un’integrazione di funzioni più o meno variamente articolate, ma sempre studiate in modo da far salvo il principio che la flessibilità della moderna periferia possa compensare la rigidità del centro storico. Quel che ha creato un abbraccio mortale delle periferie ai centri storici che ha infine portato il tutto a un comune degrado.
Tre: il problema degli architetti. Troppi (quasi 250.000 i laureati in Italia), inoltre sempre più orfani (come mai storicamente era stato) di un’arte figurativa sulle cui forme potersi confrontare, e perciò sempre più costretti a fornire astratte soluzioni ideologiche all’invivibilità urbanistica e tipologica di periferie stabularie e prive di storia (non ultime, tra quelle soluzioni, i rammendi). Dico questo dopo aver partecipato nei giorni scorsi a un convegno dove tra i relatori c’era anche l’assessore all’urbanistica di Bologna, nonchè ordinario di quella materia presso una importante università: assessore che ha presentato il nuovo piano regolatore della sua città con immagini delle periferie sempre in pianta e mai in alzato (piante tutte astrattamente – e ideologicamente – perfettamente “rammendate”), concludendo che quelle piante attestano come non ci sia città meglio tenuta al mondo di quella in cui ha operato. Dopodiché vacci tu, caro assessore, ad abitare negli alzati delle periferie di Bologna senza storia e senza cittadini: e magari stupisciti se quegli alzati, così ben rammendati in pianta, sono luoghi di segregazione perlopiù abitati da irregolari marginalizzati e violenti.
Soluzioni? Che qualcuno si renda finalmente conto che l’Italia è un caso unico, se non nel mondo, certo nell’intero Occidente, nel suo essere un Paese eminentemente storico, a cominciare dalle sue città indissolubilmente legate all’ambiente su cui sono andate variamente stratificandosi in millenni. Il che significa che in Italia il problema non è quello di rammendare le periferie abbandonando a se stessi i centri storici, perché già – falsamente – “salvati dal Novecento”: bensì progettare un’armonica ricongiunzione (o rammendo, oppure ricucitura che dir si voglia) tra città storica e periferia, e di questa città resa finalmente omogenea con l’ambiente e il paesaggio in cui sta, appunto, da secoli se non millenni. Il che significa progettare l’abbandono della città-museo della cultura storicistica del restauro, in favore d’una città in cui è tornata la vita perché aperta in mille diversi ambiti di utilità generale. Ambiti tutti da progettare, a cominciare – e sarebbe un modo per creare un’occupazione di vero interesse, specie per i giovani – dalla grande sfida d’un riuso compatibile dell’edilizia nei centri storici: quindi alla sua riprogettazione architettonica e ingegnerile, fino alla ricerca scientifica nella domotica, nelle energie rinnovabili, nelle tecniche di prevenzione dai rischi ambientali o nei sistemi di trasporto leggero (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito, eccetera) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d’estinzione con i luoghi di lavoro delle città, evitandone lo spopolamento.
E a proposito di quest’ultima ipotesi mi chiedo se i piccoli paesi in via d’abbandono non potrebbero invece divenire le “città satellite” di cui hanno fatto ampio uso gli urbanisti europei, in primis l’Inghilterra. Domanda: sono tutti matti gli impiegati e gli operai che lavorano a Solomeo (vicino a Perugia), il paese in via d’abbandono che Brunello Cucinelli ha appositamente acquistato per farne la sede della propria industria, dal momento che gli operai tornavano alla sera malvolentieri a segregarsi nei condomini della periferia perugina dove perlopiù abitavano. Non è, questo di Solomeo, un concretissimo suggerimento a riprendere il modello europeo delle “città satellite”, assumendo come tali i 6000 e più piccoli paesi italiani in via d’abbandono?
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