In due pagine centrali La Repubblica del 23 febbraio scorso ha celebrato lo studioso Corrado Gini, che circa un secolo fa ha elaborato un indice utile a misurare il grado di disuguaglianza distributiva. Federico Rampini ha rievocato il clima culturale e politico in cui Gini è vissuto, e l’uso che oggi del suo indice viene fatto nel mondo politico di ogni orientamento; mentre Piergiorgio Odifreddi, con un approccio più tecnico, ha illustrato la genesi dell’indice, la sua applicabilità ed il suo significato.
Tuttavia, pur riconoscendo che ricchezza e giustizia sono “cose” misurabili, è bene ricordare che sono fenomeni sostanzialmente diversi: nel senso che la misurazione della ricchezza e quella della sua concentrazione non implicano necessariamente la realizzazione della giustizia sociale. A tal fine si impongono come necessarie considerazioni ben più generali, che trascendono sia la statistica che la geometria.
Gli indici di disuguaglianza distributiva sono impiegati per misurare in che modo un bene, quale la ricchezza accumulata o il reddito, sia ripartito tra i componenti una data popolazione, assumendo che una di tali grandezze, ad esempio il reddito, sia equidistribuita e presenti una concentrazione nulla se ciascun soggetto ha un reddito pari alla media di tutti i redditi guadagnati ed ha una concentrazione massima se un solo individuo dispone dell’intero reddito, a fronte di un reddito nullo per tutti gli altri.
Tali valori possono essere rappresentati graficamente con la cosiddetta curva di Lorenz, sviluppata da Max Lorenz nel 1905 come strumento per l’analisi della distribuzione della ricchezza. La curva, assieme alla retta a 45° esprimente l’equidistribuzione, delimita su un piano cartesiano l’area di concentrazione, che può essere utilizzata come base per la definizione di appositi rapporti riguardanti il fenomeno dei quali l’indice che lo statistico Corrado Gini ha elaborato nel 1912 costituisce l’esempio più famoso e conosciuto al mondo.
Maggiore è la concentrazione osservata, maggiore è tale area; l’indice di Gini è espresso da un numero compreso tra 0 ed 1; valori bassi dell’indice indicano una distribuzione tendenzialmente equa, mentre quelli alti indicano una distribuzione diseguale. Il valore 0 esprime un’equa distribuzione, nel senso che tutti percepiscono esattamente lo stesso reddito; mentre il valore 1 esprime la massima concentrazione, nel senso che tutto il reddito è percepito da un solo soggetto.
La formulazione dell’indice di Gini è stata quindi derivata dalla curva di concentrazione della ricchezza di Lorenz, e per essere significativo esso non deve avere valori negativi: nel senso che non può essere utilizzato con riferimento a soggetti a reddito negativo. Rispetto ad altri indici normalmente impiegati per esprimere la distribuzione del reddito, quello di Gini misura la disuguaglianza attraverso un rapporto riferito a diverse classi di popolazione, in luogo di misurare la distribuzione del reddito sulla base di valori medi riferiti all’intera popolazione, come avviene ad esempio con l’impiego di indici quali il reddito disponibile pro-capite o il prodotto interno lordo pro-capite.
Esso quindi può essere utilizzato per confrontare le variazioni del reddito che avvengono nelle varie classi di popolazione: nel senso che, se il reddito di tutte le classi aumenta secondo il ritmo col quale aumenta il Pil, lo stato di povertà relativa non subisce alcun cambiamento, in quanto lo status di chi sta peggio non cambia; il suo impiego, inoltre, serve ad indicare come la distribuzione del reddito all’interno di un dato sistema sociale cambi nel tempo, rendendo possibile osservare se la disuguaglianza risulti crescente o in diminuzione.
Malgrado presenti tutti i vantaggi appena illustrati, l’indice di Gini, come la curva di Lorenz, è del tutto neutrale, nel senso che non associa al grado accertato di concentrazione del reddito alcuna valutazione riguardo alla sua giustificazione non solo sul piano dell’equità distributiva, ma anche su quello dell’influenza positiva o negativa che un determinato indice di distribuzione del reddito può avere riguardo al “corretto” funzionamento del sistema economico.
In proposito più pregnanti di significato sono le osservazioni che il grande economista italiano Vilfredo Pareto ha svolto circa l’interpretazione del fenomeno della distribuzione del reddito. Tutti hanno sentito parlare della piramide sociale con cui Pareto ha rappresentato significativamente la forma che assume la distribuzione del reddito all’interno di qualsiasi sistema sociale: i poveri ne sono la base, i ricchi l’apice. Le informazioni statistiche riferite a sistemi sociali diversi in tempi diversi hanno fornito a Pareto informazioni preziose sulla forma della piramide, nel senso che gli hanno consentito di affermare che in tutti i sistemi sociali di ogni tempo tende ad assumere la stessa forma.
Ciò significa che qualsiasi modificazione artificiale di questa è vanificata dal fatto che lasciata a se stessa ritorna al suo “profilo” originario. Ciò non significa che la forma della piramide non subisca nel tempo delle sostanziali modificazioni; l’esperienza dimostra che la punta della piramide tende a perdere la sua forma acuminata, perché la distribuzione dei redditi tende ad essere più omogenea, ovvero perché tutta la piramide sociale tende ad appiattirsi se il reddito aumenta più in fretta della popolazione, contribuendo ad aumentare il reddito medio delle classi sociali più povere.
L’insieme delle osservazioni paretiane sulla distribuzione del reddito sono sussunte nella cosiddetta legge di Pareto, la quale costituisce l’estrapolazione statistica del fatto che non solo il numero dei percettori del reddito medio è più elevato del numero di coloro che percepiscono redditi molto sopra e molto sotto la media, ma anche del fatto che, man mano che si considerano livelli di reddito sempre più alti, il numero dei loro percettori tende a diminuire in un modo tendenzialmente uguale.
Tale legge è stata poi variamente modificata, sia nella sua base empirica che nella formulazione teorica: ma è rimasto il problema, di non poco conto, di sapere se la distribuzione dei redditi è la risultante delle abilità naturali umane distribuite casualmente tra i componenti una data popolazione, oppure se è la conseguenza delle ingiustizie distributive fatte pesare sul sistema sociale da fattori esterni al funzionamento del sistema economico.
Pareto pare dare una giustificazione politica della sua legge, asserendo sostanzialmente che la ripartizione del reddito deve essere sempre tale da garantire, secondo la teoria economica neoclassica cui la sua analisi è riconducibile, tanto al lavoro quanto al capitale le quote minime necessarie per la loro riproduzione: se tale vincolo non fosse rispettato, le quantità disponibili di lavoro e capitale si ridurrebbero sino al punto in cui il vincolo risultasse rispettato.
Così, secondo Pareto, solo la parte del reddito nazionale eccedente la somma di tali quote minime può essere ridistribuita in qualsivoglia modo per ragioni di equità e di giustizia tra capitale e lavoro. Da liberal-liberista, Pareto proponeva che lo Stato non intervenisse in tale redistribuzione; tuttavia, se vi fossero stati interventi pubblici a favore del capitale, sarebbero stati giustificati ipso facto interventi analoghi a favore del lavoro.
Sempre da liberal-liberista, Pareto era portato a considerare che gli automatismi economici fossero virtuosi e che essi, pur in presenza di un’ineguale distribuzione dei redditi, operassero nel senso di favorire un crescente appiattimento della piramide sociale, e dunque una generalizzata e crescente giustizia sociale. Se Pareto avesse vissuto l’esperienza contemporanea del prevalere di organizzazioni sociali sempre più caratterizzate dall’arbitrio con cui i “poteri forti” condizionano il corretto funzionamento dei sistemi economici, egli non avrebbe esitato a schierarsi dalla parte di chi sostiene la necessità di presidiare, sulla base di regole precise, l’autonomia delle istituzioni economiche, in modo da consente a queste di plasmare la forma della piramide sociale per renderla sempre più schiacciata verso il basso.
E’ questa la prospettiva alla quale l’azione futura delle società politiche degli attuali sistemi economici industriali in crisi dovrebbe essere ricondotta, consapevoli che l’indice di Gini evidenzia la prevalenza di distribuzioni diseguali del reddito che nessuna di tali società è più in grado di sopportare.