Non mi propongo ora un’analisi approfondita dei cosiddetti corpi intermedi, quanto piuttosto di alimentare una discussione al riguardo. Di tanto in tanto Giuseppe De Rita, con il suo consueto acume e con la sua lucidità, ci ricorda, lo dico a mio modo, che la convivenza civile non si fonda solo sul rapporto fra pochi “giganti” – lo Stato, i grandi gruppi economici ecc. – e una massa informe di “atomi” (i singoli e le loro transazioni). In mezzo vi sono degli aggregati molecolari: i corpi intermedi, appunto.
Studiosi come Robert Dahl giungono a identificare la democrazia dei moderni con la “poliarchia”, proprio a indicare un sistema plurale e diffuso di poteri, con spinte e controspinte. E il termine compare pure, ad esempio, nella dottrina sociale della Chiesa di Roma.
Sulle pagine de l’Unità, poi, autori quali Carlo Sini e Michele Ciliberto hanno più volte sottolineato come proprio nei corpi intermedi si possano scorgere l’ossatura e il tessuto connettivo della democrazia, al di là delle derive plebiscitarie e leaderistiche. Ed è la storia stessa del movimento operaio a mostrarci l’importanza, ad esempio, dei sindacati, del mondo delle cooperative, delle autonomie locali.
Che dire, però, dinanzi ai forti tratti corporativi e clientelari di tante organizzazioni “intermedie”? Siamo ancora al cospetto del libero associarsi dei cittadini oppure si tratta di altro? Nelle Americhe tale connettivo, in grado di rendere più forte e robusta la società, è dato non di rado dalle Chiese (al plurale, non a caso), con la loro capacità di includere e di esprimere le istanze dei più deboli. E da noi chi assolve davvero a un ruolo del genere?