Sta per iniziare a Francavilla al Mare, in Abruzzo, l’ottava edizione di Filosofia al Mare (6-9 luglio). L’evento ha come partner editoriale la casa editrice Orthotes. Titolo di quest’anno: “Conversazioni sulla Verità”. Abbiamo intervistato Carlo Tatasciore, Direttore scientifico della manifestazione.

Filosofia al Mare, ormai da anni, riesce a coniugare rigore scientifico e coinvolgimento di un pubblico di non “addetti ai lavori”. Qual è il segreto per conseguire un risultato del genere? E più in generale: ci può parlare, in breve, dello spirito della manifestazione?

Credo che la risposta sia semplice: basta porsi nella prospettiva giusta e guardare. Lo spirito della manifestazione consiste proprio nel tentativo di difendere la presenza di uno “spirito” (certo, in un significato il più vicino alla nostra condizione umana). C’è una vasta fioritura – in Italia in particolare, ma non soltanto in Italia – di iniziative filosofiche che non possiamo trascurare, ma che ci impone ancor più di difendere il modo di argomentare tipico della filosofia, che fa appello alle risorse migliori di cui tutti noi disponiamo. Al richiamo delle grandi questioni (quest’anno affrontiamo la Verità) nessuno sa rimanere indifferente. In una situazione culturale che spesso si percepisce caratterizzata da stanchezza, l’intento è allora semplicemente quello di coinvolgere chi ascolta, di far nascere una reazione che viene espressa con le domande, ma per lo più rimane interiormente a ispirare una riflessione successiva. Perché ciò accada, non basta la retorica (se così posso dire), ma ci vuole il “rigore scientifico” (sempre se così posso dire). Non basta un’ottima ma generica capacità di intrattenimento: occorre invece saper intrattenere in quel modo particolare che è stato chiamato filosofia.

L’edizione di quest’anno pone al centro il concetto di verità. Ci ricorda un attimo la distinzione fra realtà e verità, fra vero e reale?

Spesso abbiamo una percezione distorta della realtà, a causa di errori che dipendono dal nostro modo di vedere le cose, le situazioni, le persone. Tuttavia il fatto stesso che siamo disposti ad accettare correzioni del nostro modo di vedere implica che sappiamo distinguere una realtà indipendente da noi, che magari non vediamo subito, ma che prima o poi ci compare in tutta la sua verità. Voglio dire che la distinzione tra verità e realtà è fondata sulla correttezza delle nostre asserzioni sulla realtà, che però pure ci si mostra nella sua evidenza. Questo mostrarsi, questo apparire, è il problema. Quanto siamo disposti a vederci legati e quasi dipendenti da esso, o quanto piuttosto attribuiamo alla nostra “ragione” la forza per organizzare quella rivelazione?

In filosofia si può parlare di verità “al singolare”? Come per altri concetti, sono evidenti le differenze fra le proposte dei vari autori. Solo due esempi: Hegel e Heidegger. Per il primo, il vero è l’intero. Per cogliere l’idea di verità in Heidegger, occorre piuttosto partire dal significato del termine greco corrispondente.

I due grandi filosofi appena citati sono nominati in questo contesto molto a proposito: perché, se la verità è la caratteristica che accompagna il discorso (il logos, la ragione), allora è difficile sfuggire alla necessità di avere un intero di proposizioni. Non c’è mai una proposizione che possa rendere da sola la verità: “il vero è l’intero”. Non dimentichiamo che la verità filosofica che Hegel pensava di aver presentato era tutta nel sistema, e che questo era fondato sulla Logica. Se invece la verità è heideggerianamente questione di “mancanza di veli”, di svelarsi o nascondersi, casomai bisogna stare – come si dice – “in campana”: cioè sempre pronti all’ascolto o alla visione, perché non dipende da noi stabilire il tempo e il modo. Per Heidegger l’uomo ha certo un bel compito: ma una responsabilità, si capisce bene, del tutto diversa.

Il compianto Giovanni Jervis in un libro del 2005 intitolato Contro il relativismo scriveva fra l’altro: “Secondo un aneddoto, Alessandro Manzoni fu chiamato un bel giorno a dirimere una lite fra due uomini che si accapigliavano per una questione di interessi. Decise di interrogarli separatamente e, sentiti gli argomenti del primo, disse: ‘Lei ha ragione’. Sentito il secondo, però, prima rimase pensoso poi concluse: ‘Anche lei ha ragione’. A questo punto si interpose una terza persona: ‘Ma come è possibile che abbiano ragione tutti e due?’. E Manzoni: ‘Ha ragione anche lei’”. In ogni caso, soggettivismo, relativismo, prospettivismo non sono sinonimi. Cosa pensa al riguardo?

Penso che in effetti sia decisivo scegliere da che parte stare: se dalla parte di chi pensa che dialogare con qualcuno significhi starlo a sentire, rispondere e tentare di controbattere esigendo lo stesso trattamento, poiché dialogo significa filosoficamente questo; o se stare dalla parte di chi ha già per qualche motivo una verità che si fonda su mille presunte ragioni, dipendenti da esperienza, riflessione o altro. Va bene parlare di soggettivismo: come si potrebbe negare al soggetto una sua “verità”? Purché non si passi all’assolutizzazione del soggettivismo. Relativismo, poi, significa quel che significa: cioè che non si può accettare qualcosa che sia presentato come vero in assoluto; ma da un relativismo che sia funzionale alla verità (questo relativismo lo chiamerei piuttosto pluralismo) non è necessario passare al nichilismo. Prospettivismo ci fa pensare alla filosofia di Nietzsche, che dal canto suo un po’ di ragione ce l’aveva. Che la verità ci serva a vivere è difficile contestarlo. Ecco: parlare della verità al mare, per alcuni fortunatamente in vacanza, significa nella mia intenzione invitare a riflettere adeguatamente, con ospiti sicuramente in grado di farcelo fare, sulla nostra condizione così creativa, ma anche così precaria.

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