Antonio Maccanico se ne è andato proprio nei giorni in cui Giorgio Napolitano ha rimesso all’onor del mondo quell’etica pubblica fondata sull’equilibrio e la responsabilità alla quale si era ispirato per tutta la vita. Del resto appartenevano alla stessa generazione, che aveva vent’anni alla fine della guerra (e della guerra civile), e che anche per questo aveva appreso per tempo le virtù della moderazione e della mediazione. Il che non impedì a Maccanico, nel 1956, di unirsi agli altri cento firmatari del manifesto stilato da Carlo Muscetta e da Luciano Cafagna per condannare la repressione della rivoluzione ungherese.
Personalmente ho avuto l’onore e la fortuna di collaborare con lui specialmente nei primi e tormentati anni ’90 del secolo scorso: da quando, nel 1992, da presidente della I Commissione del Senato, mi nominò relatore della legge sul finanziamento dei partiti (che poi si tradusse in quel “decreto Conso” che malauguratamente Scalfaro si rifiutò di firmare); a quando, dopo le elezioni del 1994, ospitava nel suo studio di Corso Vittorio l’associazione Italia domani che aveva fondato con Giuliano Amato per offrire uno sbocco di centrosinistra all’avventura della gioiosa macchina da guerra sconfitta da Berlusconi; fino a quando la sua generosità si era spinta ad offrire sostegno operativo a quello che era soltanto il candidato in pectore alla leadership del nuovo centrosinistra.
Romano Prodi allora declinò l’offerta, per non confondersi con le “facce vecchie” della prima Repubblica; e nel 1996 fu, insieme con Gianfranco Fini, fra i meno entusiasti rispetto al suo tentativo di formare un governo dopo la crisi del governo Dini.
Ora che Prodi ha ricevuto 101 palle nere in seno al suo stesso club, e Fini non è più in Parlamento, Tonino se ne è andato: senza rimpianti, c’è da credere, per il “nuovismo” di vent’anni fa.