La crisi politica che affligge il Paese secondo forme ben più gravi di quelle che caratterizzano gli altri Paesi per effetto della comune crisi economica stimola la produzione di analisi volte ad individuarne la cause profonde, risalendo sino all’origine della Repubblica. A quest’ordine di analisi appartiene quella di Giuseppe Bedeschi, professore di filosofia e storico del liberalismo, il cui titolo non ammette dubbi sull’intento dell’autore: “La prima repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile”.
L’analisi di Bedeschi è una celebrazione del “centrismo degasperiano”. Se è indubbio il fatto che il cosiddetto centrismo di Alcide Degasperi (1948-1952) sia stato, contrariamente a quanto sostenuto da molta storiografia di sinistra, un periodo, oltre che di ricostruzione del Paese, di riforme nel campo economico e sociale che hanno posto le premesse del successivo miracolo economico (1956-1963); è altrettanto indubbio il fatto che l’eccessiva attenzione, per quanto giustificata, riservata al problema della riorganizzazione della base produttiva del Paese in funzione del suo ammodernamento, della sua crescita e del suo sviluppo, ha logorato il consenso politico all’esperienza di governo degasperiana, causando la sconfitta del suo protagonista all’interno del suo stesso partito. La conseguenza è stata l’affermazione della parte più conservatrice e per certi aspetti reazionaria della DC: la cosiddetta “sinistra democristiana” che, successivamente al 1963, imponendo e approfittando della “centralità del partito”, ovverosia della sua insostituibilità alla guida del governo per ragioni internazionali, non riuscirà a rimuovere le gravi carenze sociali che si erano accumulate nella fase precedente del processo di crescita e di sviluppo. Nel fallimento coinvolgerà, oltre che i partiti di centro che erano sempre stati “fedeli” al partito dei cattolici, il Partito socialista italiano che, dopo i fatti d’Ungheria del 1956, resosi autonomo dal Partito comunista, si era aperto all’esperienza dei governi di centro-sinistra, sempre a guida democristiana.
Il fallimento dei governi di centro-sinistra è costato all’Italia la crisi del Sessantotto e quella dell’”Autunno caldo” del 1969; crisi che hanno caratterizzato negativamente l’organizzazione dell’economia e la soluzione adeguata dei molti problemi sociali originati dalla precedente esperienza. Le difficoltà e le tensioni sociali successive si sono protratte per gran parte degli anni Settanta, sino a determinare una situazione politica e sociale di una tale gravità da indurre il Partito comunista ad elaborare il disegno del “compromesso storico”, col quale veniva proposta l’idea togliattiana di una democrazia progressiva, risultante dalla convergenza collaborativa di comunisti, socialisti e cattolici.
Questo disegno non ha portato ad esiti apprezzabili, per ragioni ideali, ma anche e soprattutto per ragioni politiche. Sul piano ideale, da più parti si è paventato che l’incontro tra cattolici e comunisti fosse in radicale contrasto con la logica della democrazia liberale, fondata sull’alternarsi nel governo del Paese di partiti e forze politiche diverse. Sul piano politico, invece, il disegno del “compromesso” è fallito perché il PCI, una volta entrato nell’area di governo, non ha avuto nulla di preciso da proporre sul piano delle riforme economiche e sociali che sarebbero state necessarie, ma ha solo invocato l’esigenza di una maggiore austerità per l’intera società civile e una maggiore onestà nell’esercizio delle funzioni pubbliche per l’intera società politica. Il disegno del “compromesso”, per tutte le critiche (incluse le “critiche delle armi brigatiste”) che è riuscito a coagulare contro di sé, ha avuto perciò vita breve, determinando il ritorno del Partito comunista all’opposizione, senza riuscire ad aprire al Paese una prospettiva di governo alternativo a quello fondato sulla centralità della DC.
Alla logica egemonica della DC non è sfuggito lo stesso Partito socialista dopo l’avvento alla segreteria di Bettino Craxi. Questi, per quanto abbia avuto il merito di sottolineare tutti i limiti della cultura e della politica del PCI, non ha avuto però la forza di sottrarsi dall’impantanamento cui l’ha condotto la decisione di avviare una collaborazione con la DC, nella sola prospettiva di una spartizione delle spoglie istituzionali.
Nella situazione nata dopo il fallimento del disegno del compromesso storico ha segnato il proprio trionfo la partitocrazia, nel senso che i partiti di governo egemonizzati dalla DC, destinata a governare sempre e comunque, hanno perfezionato un sistema corruttivo che si è trascinato sino all’inizio degli anni Novanta, quando il “crollo del muro” ha segnato la fine della guerra fredda e con essa la fine della centralità della DC e, per Bedeschi, della prima Repubblica. Peccato che Bedeschi si fermi a questo punto, lasciando presumere che la prima sia stata seguita da una seconda Repubblica sorretta da una slancio innovativo e riformista delle forze politiche. In realtà, la nuova Repubblica, dopo il fenomeno di “tangentopoli”, più che da un nuovo modus operandi dell’organizzazione istituzionale che avrebbe dovuto comportare il superamento dei limiti della logica democratica del passato, del sistema corruttivo e del ridimensionamento del settore pubblico in economia, è stata solo caratterizzata dal radicale disfacimento dell’economia mista che avrebbe potuto servire ad attenuare gli effetti della crisi che dal 2008 sta affliggendo la società civile italiana. L’ironia della sorte ha voluto che a tale opera di disfacimento partecipassero, nella posizione di protagonisti, molti di coloro che nei decenni precedenti avevano contribuito alla realizzazione dell’economia mista e tra essi molti socialisti, transfughi verso un presunto nuovo “sole dell’avvenire”.