Carlo De Benedetti, autorevole rappresentante dell’imprenditorialità italiana, avanza una proposta per il rilancio dell’economia nazionale, nella prospettiva di un più generale rilancio dell’economia occidentale. In un breve libro, da titolo “Mettersi in gioco”, delinea la strategia che a suo parere potrebbe servire allo scopo, per il superamento dell’empasse che al momento caratterizza l’economia occidentale, senza mancare di indicare quali sarebbero le cause che sono all’origine della crisi attuale.
L’economia occidentale, afferma De Benedetti, e con essa quella italiana, è oggi sconvolta: mai, dal 1929, il mondo occidentale ha vissuto una distruzione di ricchezza paragonabile a quella cui si sta assistendo; e mai “un intero paradigma produttivo”, quello occidentale, è stato “così fortemente messo in discussione”. Secondo l’autore, la crisi finanziaria e quella reale che gran parte dei Paesi occidentali sta attraversando è solo la punta dell’iceberg di una crisi strutturale che “ha a che fare con le tendenze secolari e planetarie degli assetti economici”; è l’“epifenomeno dello spostamento dell’asse mondiale della ricchezza verso i Paesi nuovi”, che rischia di riguardare in esclusiva i Paesi dell’Europa e la loro economia. Il dato che testimonia la gravità della situazione è la ricomparsa nei sistemi sociali occidentali di disuguaglianze distributive assimilabili a quelle della prima età industriale, con i ricchi che diventano sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri.
Il danno dell’inceppamento del vecchio paradigma produttivo si è ripercosso soprattutto sulle nuove generazioni, che stentano ora a reperire stabili opportunità di lavoro e di reddito; se non si porrà rimedio alla penuria dei posti di lavoro, secondo De Benedetti, i singoli sistemi sociali saranno esposti al rischio di un fallimento generalizzato, per subirne gli esiti di conflitti sociali sempre più gravi, “fino a possibili cambi traumatici di regime”. Tuttavia, non bisogna scoraggiarsi, perché altri momenti drammatici hanno caratterizzato l’ansia per il futuro che si vive oggi, come quelli che ha vissuto l’Italia e gran parte dei Paesi occidentali, negli anni Settanta del secolo scorso; anche in quegli anni, è stato possibile uscire dall’incertezza determinata dalla crisi petrolifera, attraverso l’attività innovativa che ha consentito di cambiare il modo di produrre e di lavorare.
Secondo De Benedetti, il passato insegna che può esserci una via di uscita e di riscatto dalla crisi: così come nel passato è stata la forza dell’innovazione a rilanciare la nostra economia, nello stesso modo, oggi, è ancora l’innovazione a rendere possibile la realizzazione di un “nuovo modello produttivo”, facendo leva sull’innovazione. E sebbene non si sappia quale sarà il nostro destino e nessuno abbia “modelli da proporre chiavi in mano”, ciò di cui si deve essere certi è che non c’è più tempo per il pessimismo rinunciatario del “declinisti”, né per l’inerzia ottimistica degli illusionisti. Si deve essere consapevoli che ci troviamo nel mezzo di una strada molto accidentata e per percorrerla “tocca spingere”. Ma come? De Benedetti non ha dubbi: l’innovazione ci salverà e, come in una partita di scacchi, per vincere si dovrà disporre di due buone torri d’attacco (imprenditori e giovani), di un alfiere di difesa (l’opinione pubblica) e di una regina dinamica (una buona politica). Tutti i pezzi, se ben coordinati, varranno ad evitare lo scacco matto al Re (il rilancio delle crescita e dello sviluppo).
Gli imprenditori, la prima torre, dovranno ricuperare le loro “qualità” creative delle quali intrinsecamente dispongono a somiglianza del “grande artista creatore”, o come il generale dell’esercito che “fissa il piano delle operazioni”. I giovani, la seconda torre, in quanto depositari del futuro nelle proprie mani, dovranno reagire allo stato attuale delle cose, per potersi sottrarre al disagio, consapevoli che nessun altro farà qualcosa per loro. Le due torri dovranno poter contare sulla qualità dell’informazione, l’alfiere, perché sia garantita nel contempo la conservazione della democrazia, attraverso l’esercizio di un “buon giornalismo” per “selezionare, ordinare, interpretare e proporre ai cittadini una rappresentazione della realtà che consenta loro di partecipare alla vita pubblica e di esercitare il necessario controllo sul potere”. Infine la politica, la regina, dovrà, con rinnovata dignità, coraggio e competenza, guidare il sistema sociale e la sua economia verso il futuro, forte del consenso generalizzato dell’intero corpo sociale; ciò le sarà reso possibile se saprà essere capace d’essere portatrice di una cultura socialdemocratica, perché, al pari della cultura liberale di due secoli fa, che ha svolto il ruolo di infrastruttura ideologica a supporto della borghesia in ascesa, possa svolgere una proficua azione contro le disuguaglianze distributive e le disparità sociali di oggi, non più condivise sulla base dei valori propri della democrazia moderna. Una buona politica, conclude De Benedetti, che sappia riproporre su basi moderne la democrazia renderebbe un “servizio non solo agli europei o agli italiani, ma all’intera civiltà umana”.
L’analisi critica della situazione attuale e la proposta per il superamento delle difficoltà, entrambe formulate da De Benedetti, non possono essere condivise dalla generalità degli italiani. Ciò perché, sia la critica che la proposta provengono da un attore che non è stato del tutto ininfluente rispetto a quello che è accaduto nel Paese negli ultimi sessant’anni; egli, infatti, non può sorvolare sulle responsabilità della classe imprenditoriale dell’Italia circa le scelte politiche ed economiche occorse dopo il secondo conflitto mondiale, soprattutto dopo la crisi petrolifera degli anni settanta. Al riguardo, De Benedetti, nella sua narrazione, non esita ad affermare che proprio da quegli anni bui l’Italia è riuscita ad uscire grazie alle capacità innovative della sua classe imprenditoriale.
Ma che tipo di capacità innovativa hanno evidenziato allora gli imprenditori italiani? Non certo una capacità innovativa creativa, di cui, per De Benedetti, tutti gli imprenditori sono portatori. Tale capacità, negli imprenditori italiani, attivi all’epoca della prima crisi dell’economia italiana seguita alla fine del secondo conflitto mondiale, anziché creativa, è stata tutt’al più “manierista”, o peggio “plagiante”; la fuoriuscita dal “tunnel” della crisi è avvenuta, infatti, non attraverso un dinamismo delle grandi imprese tle da mettere il Paese nelle condizioni di rispondere alle sfide dell’incombente globalizzazione, ma attraverso una fuga verso “il piccolo è bello”. Ciò è accaduto per iniziativa, non di imprenditori schumpeteriani, ma di “impresari” da mercato bovario; tutt’altra cosa, come De Benedetti ben sa, per aver utilizzato la distinzione nei confronti di chi, da impresario e non da imprenditore creativo, ha inteso governare l’Italia conducendola sull’orlo del baratro.
Per iniziativa di imprenditori poco innovativi sono nate così le “tre Italie”: una, quella delle grandi imprese, localizzate nelle regioni tradizionalmente più industrializzate del paese, perennemente in crisi strutturale per il carente rinnovamento tecnologico e la mancata diversificazione della loro offerta; un’altra, che ha interessato le regioni del Nord-Est, del Centro e in parte del Mezzogiorno, dando vita al “modello adriatico, costituito da piccole e medie imprese, risultate poi la “palla di piombo” ai piedi della base produttiva nazionale, perché non all’altezza di reggere alle sfide competitive sui mercati internazionali e tenute in vita a spese dei prezzi e dei salari interni; una terza, infine, quella del Mezzogiorno, perennemente arretrata e sorretta da flussi cospicui di trasferimenti i quali, anziché essere orientati alla promozione di un processo di crescita-sviluppo, sono stati utilizzati prevalentemente per finanziare livelli crescenti di consumo.
Che dire poi dell’informazione? Sin dal dopoguerra, il buon giornalismo è stato del tutto mancante; al riguardo, è sufficiente ricordare le accuse specifiche lanciate nel dopoguerra da Luigi Einaudi contro la concentrazione delle testate giornalistiche nelle mani dei controllori delle grandi imprese già dai tempi del regime fascista. Situazione, questa, che non è certo migliorata successivamente; anzi è progressivamente peggiorata, sino ad arrivare, in tempi a noi vicini, alle infiltrazioni che hanno subito, come ha raccontato Massimo Mucchetti in “Il baco del Corriere”, le redazioni dei grandi giornali. Paradigmatica è l’infiltrazione avvenuta ai danni del più diffuso tra i quotidiani italiani, che oltre ad essere di proprietà di controllori di grandi imprese, è stato vittima di “aggressioni spionistiche”, i cui mandanti sono stati alcuni di quegli stessi controllori, allo scopo di cambiare la dirigenza del giornale, quando taluni tra i suoi componenti non si fosse “allineata” alle “direttive” degli interessi del “padrone”.
Con pedine di siffatta natura, tanto per tornare al gioco degli scacchi evocato da De Benedetti, c’è poco da nutrire fiducia sulle possibilità che si offrono al Paese per superare la situazione attuale. L’unica speranza è riposta nel dinamismo, per ora solo potenziale, di una delle torri, quella espressa dai giovani. Infatti, solo se questi sapranno “indignarsi” responsabilmente, fondando la propria indignazione sulla conoscenza dei reali “nodi” da sciogliere, per uscire dal “cul de sac” nel quale è inserito al momento presente il sistema sociale dell’Italia, un futuro forse meno “declinista” potrà “sorridere” anche ai meno giovani.
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