La tragica vicenda del treno spagnolo deragliato rimanda a una delle definizioni della società contemporanea, chiamata “delle emozioni forti”. Nell’epoca del disincanto e della alessitimia (espressione dell’incapacità di leggere e vivere i propri stati emotivi), da parte di molti – per un paradosso solo apparente – vi sarebbe una ricerca compulsiva di forti sensazioni: da qui la guida spericolata, il consumo di sostanze stupefacenti, la dipendenza dalle “macchinette”, alcune forme di ipersessualità, altri comportamenti “inebrianti”. E “cacciatori di emozioni” vengono chiamati coloro che, per “sentirsi vivi”, hanno bisogno di perseguire tali stati di coscienza.
Considerazioni più approfondite, però, ci mostrano l’uso improprio che in tal modo facciamo dei vocaboli. Ricordo ad esempio che Salomon Resnik, uno dei maggiori maestri viventi della psicoanalisi, sottolineò come l’eccitazione fosse addirittura agli antipodi dell’emozione. Quest’ultima, infatti, attraverso la sequenza sensazioni-emozioni-sentimenti conduce al pensiero, alla facoltà di “mentalizzare”. L’eccitazione, da sola, attende invece semplicemente di venir “evacuata”. Da un lato vi sarebbe un percorso di “digestione” e di elaborazione, dall’altro una sorta di scarica fine a se stessa, tale da provocare un vissuto di frustrazione. E chiedendo ai pazienti, specie ai più giovani, della propria vita emotiva, la risposta spesso tradisce proprio tale confusione di parole. Essi quasi si vergognano a parlare di emozioni, pensando che il terapeuta, più che alla vita affettiva, alluda alle “sensazioni forti” o, meglio, all’eccitazione: alle “pasticche”, alle corse folli e simili, e non, poniamo, alla meraviglia provata dinanzi a una rosa che sboccia.