Nei mesi scorsi la clientela delle librerie del Regno Unito si è imbattuta in due volti familiari: Tony Blair e Gordon Brown. La coppia che nel maggio del 1997 ha riportato il Labour al governo dopo diciotto anni di dominio incontrastato da parte dei Conservatori ha fatto nuovamente la sua comparsa sui banchi delle novità editoriali, ciascuno con il paperback del suo ultimo libro. Per Blair si tratta di A Journey (Arrow, London 2011) e per Gordon Brown di Beyond the Crash (Simon & Schuster, London 2011). La scelta dei tempi per l’uscita dei libri sembra fatta apposta per rilanciare la vecchia storia della rivalità tra Blair e Brown, che risalirebbe al cosiddetto “patto del Granita” – dal nome di un Ristorante di Islington – che avrebbe stabilito i termini della collaborazione tra i due ponendo le basi per una delle più interessanti relazioni politiche della storia britannica recente. Secondo le ricostruzioni circolate in seguito, il patto prevedeva che Brown avrebbe rinunciato a candidarsi alla successione di John Smith, per appoggiare invece la candidatura del più giovane Blair. Alcuni sostengono che l’accordo disponeva anche che, in caso di vittoria elettorale del Labour, Blair avrebbe dopo qualche tempo ceduto il proprio posto alla guida del partito e del paese a Brown. Insomma una sorta di “staffetta” sul Tamigi. Probabilmente le cose non sono andate proprio in questo modo. Nel libro di Blair non si menziona un patto nel senso proprio del termine. Piuttosto ci sarebbe stata una lunga e tormentata trattativa tra i due, cominciata molto prima della morte improvvisa di John Smith, avvenuta nel 1994, cui avrebbero preso parte anche altri dirigenti del partito, al termine della quale Brown avrebbe accettato di farsi da parte riconoscendo che Blair aveva maggiori possibilità di vittoria proprio per la sua immagine di esponente di una nuova generazione che non aveva svolto alcun ruolo significativo negli anni bui per il Labour del predominio della Thatcher.

In attesa di leggere anche la versione di Brown, se mai ci sarà, credo si possa affermare che i due sono stati certamente rivali, ma anche che li ha uniti a lungo il comune sforzo di rinnovare il partito dei socialisti britannici sviluppando un nuovo approccio ispirato in larga misura dalla visione strategica che, riprendendo l’espressione di Tony Giddens, ha preso il nome di “Terza Via”. La vittoria elettorale del 1997 ha inaugurato un lungo ciclo politico di egemonia della sinistra riformista nel dibattito pubblico e nella politica d’oltre Manica, le cui conseguenze si sono fatte sentire per anni anche in diversi partiti socialisti e progressisti nel resto d’Europa.

Dato che tra i due Blair è indubbiamente quello il cui nome è più strettamente associato a questa prospettiva politica, non sorprende che A Journey si soffermi a lungo nell’illustrarne le caratteristiche e nel difenderne le premesse. Ciò che colpisce, semmai, è il fatto che la ricostruzione retrospettiva che Blair fornisce della genesi del New Labour faccia leva su considerazioni pragmatiche, di strategia elettorale, più che di principio. Ne viene fuori l’immagine di un uomo con uno straordinario istinto politico, ma anche piuttosto disinvolto per quel che riguarda gli ideali. Appassionato soprattutto da tutto ciò che è innovativo, al passo con i tempi, veloce. Significativa la descrizione dei difficili rapporti con Robin Butler nei primi anni del governo laburista. La tensione tra lo staff del primo ministro, ispirato al modello statunitense dei collaboratori esterni, e il più alto rappresentante del Civil Service professionale è indicativa, e aiuta a comprendere meglio molte delle iniziative costituzionali prese dal governo Blair. Certo risulta difficile immaginare Tony Benn, e persino John Smith, dichiarare con entusiasmo il proprio amore per l’America.

In questo, come in molti altri aspetti, Blair si rivela una figura anomala nel panorama del socialismo britannico. Al punto da confessare diverse volte una sorta di estraneità nei confronti di una parte dei membri del partito, non solo i dirigenti, che accusa a più riprese di essere “Old Labour”. Un sentimento che si accompagna invece a una più volte ribadita solidarietà ideale con una parte della leadeship Liberaldemocratica. Parole di apprezzamento sono riservate in specie al Leader del partito alla fine degli anni novanta Paddy Ashdown, e a Roy Jenkins, il vecchio esponente della destra Laburista che aveva dato vita al Partito Socialdemocratico, poi confluito, dopo la fusione con i Liberali, nel nuovo Partito Liberaldemocratico che oggi governa con i Conservatori. Parlando di Jenkins e di Ashdown, Blair confessa di aver preso sul serio, per qualche tempo, l’ipotesi di un ricongiungimento delle due famiglie “socialdemocratiche” della politica inglese.
Tutto sommato, colpisce meno la simpatia di Blair per la Thatcher, anche perché nota da tempo. Contrariamente a quel che si sente spesso dire, il radicalismo della Thatcher non è andato lontano sulla strada cui l’avrebbe condotta la politica di “rolling back the State” invocata dai libertari. Le privatizzazioni e le liberalizzazioni non hanno attaccato il cuore del modello universalista di Welfare ereditato dalle riforme introdotte nel corso del novecento, che – è il caso di ricordarlo – erano il risultato di interventi legislativi promossi o sostenuti anche dagli stessi conservatori. L’offensiva ideologica della Thatcher ha colpito duro soprattutto sul piano della cultura politica, proponendo un modello basato essenzialmente sull’ideale della “sovranità del consumatore”. Un messaggio che un ceto medio la cui presa di coscienza era in parte proprio il prodotto delle grandi riforme del passato ha accolto con entusiasmo. Questa donna straordinaria ha prima fatto piazza pulita dei “grandees” che reggevano il suo partito, e poi ha cambiato la società nel suo complesso. Attaccando lancia in resta qualsiasi corporazione o corpo sociale intermedio che si trovasse sulla sua strada. Università, gruppi professionali, amministrazioni pubbliche, tutti hanno dovuto fare i conti con un nuovo stile politico che non ammetteva mediazioni e sfumature. La frase: “the Lady is not for turning” – pronunciata al congresso del partito nel 1980 – esprimeva perfettamente questo nuovo modo di pensare, ed era studiata apposta per dare un brivido di piacere a un elettorato che non si riconosceva più nel paternalismo “soft” dei politici britannici. Lo stile di comunicazione di Blair è figlio di questo nuovo modo di rivolgersi agli elettori.

Come ha sostenuto John Gray, c’è un’amara ironia nella vicenda politica della Thatcher. Determinata a cambiare il modo di pensare dei suoi concittadini (“economics are the method, the object is to change the soul” è un’altra sua frase entrata nella storia), la “Lady di ferro” ha contribuito alla nascita di una società molto diversa da quella basata sui valori tradizionali vittoriani cui pure diceva di ispirarsi. Una società meno condizionata dai vecchi schemi di classe, ma anche meno eguale sul piano economico. Meno monoculturale, ma più insicura e più libera nei costumi. Soprattutto – sostiene Gray – una società ossessionata dall’ideale della realizzazione personale e completamente priva di quelle potenti forze stabilizzatrici che ne avevano assicurato la sopravvivenza in tempi non facili. Da questo punto di vista, il New Labour di Blair è stato davvero l’erede della Thatcher. Non perché, come dicono alcuni suoi critici da sinistra, ne abbia riprodotto fedelmente le politiche. Ma perché ne ha accettato la visione della modernità. Cercando semmai di moderarne gli eccessi attraverso l’appello a una concezione comunitaria della società. La conferma più evidente di questa continuità si trova nelle riforme costituzionali introdotte dai Laburisti, senza dubbio le più incisive degli ultimi cento anni, al punto che si parla oggi di “a New British Constitution”.

Ma torniamo ancora per un momento ai libri di Blair e Brown. In effetti, sin dalla scelta delle immagini di copertina, sono evidenti le differenze di temperamento e di approccio alla leadership dei due uomini politici che hanno segnato l’esperienza di governo del Labour fino alle ultime elezioni, che il partito non ha vinto aprendo la strada alla relativa novità (l’ultimo c’era stato negli anni quaranta) di un governo di coalizione a Westminster. Continuando a condizionare la vita del partito anche dopo, nell’evocativa rivalità tra i due fratelli che si sono contesi la leadership del Labour, Ed e David Miliband. Sulla copertina di A Journey ritroviamo Tony, “the boy” come lo abbiamo conosciuto sin dal suo ingresso a Downing Street quella mattina del maggio del 1997, a poche ore dalla valanga di voti che seppellirono il governo di John Major. Sguardo rivolto al futuro, sorriso ottimista, l’espressione sicura di chi ha le idee chiaro su ciò che vuole e sul modo di ottenerlo. Solo i capelli ingrigiti e le rughe ci dicono che questa non è più l’incognita di un Leader di partito che si trova a ricoprire l’incarico più importante del sistema politico britannico privo di qualsiasi esperienza di governo. Come ci ricorda lo stesso Blair all’inizio del primo capitolo: «il 2 maggio del 1997, sono entrato a Downing Street come primo ministro per la prima volta. Non avevo mai avuto un ruolo nel governo, nemmeno come il meno importante dei sottosegretari. Era il mio primo e unico incarico di governo». Lo sfondo che suggerisce una bella giornata primaverile sottolinea immediatamente il contrasto con il colore autunnale che incornicia il profilo di Gordon Brown sulla copertina di Beyond the Crash. Assorto, forse turbato, il successore di Blair sembra un uomo incerto sul da farsi. Alle prese con un problema per cui non riesce a immaginare una soluzione soddisfacente. Partire da queste due copertine, e dai libri che le accompagnano, è un buon modo per riflettere sulla situazione attuale dei laburisti britannici. Anche se oggi il partito ha in Ed Miliband un nuovo Leader, è ancora l’eredità di Blair e di Brown che condizione il futuro dei socialisti britannici. Incerti se rilanciare la sfida del New Labour di Blair o rivederne criticamente le premesse come ha cominciato a fare Brown.

Che questo sia il dilemma di fondo che deve essere sciolto in maniera convincente da Militand lo si evince mettendo a confronto l’atteggiamento profondamente diverso che Blair e Brown hanno nei confronti dell’attuale crisi economica. A questo tema è dedicato Beyond the Crash. Si tratta di un libro difficile da classificare. La prima parte è un memoriale che ricostruisce il ruolo centrale che l’autore ha avuto nella prima fase della crisi, innescata dal crollo della bolla immobiliare negli Stati Uniti con le sue drammatiche conseguenze per il sistema creditizio e per i sottoscrittori dei mutui. Brown rivendica la scelta di intervenire con il denaro pubblico per interrompere una spirale che correva il rischio di trasformarsi rapidamente in un panico su scala globale. Dopo aver difeso l’opportunità dell’intervento pubblico per evitare il peggio, l’ex primo ministro, che nei governi Blair è stato, come Cancelliere dello Scacchiere, responsabile delle politiche economiche, delinea un quadro delle prospettive fosche dell’economia mondiale. In particolare, si sofferma a lungo sul fatto che la mancanza di fiducia resa ormai evidente dalle persistenti turbolenze finanziarie che hanno messo in moto la seconda – per molti versi più drammatica – fase della crisi economica finisca per provocare una recessione dalle conseguenze imprevedibili sul piano sociale. Perdita di posti di lavoro, incertezza, timore per il futuro sono per Brown i nemici da sconfiggere. Per farlo, sarebbero necessari a suo avviso interventi molto incisivi sul piano della governance globale dell’economia. Una nuova “costituzione” mondiale delle banche e del credito che prevenga gli eccessi e le distorsioni nel funzionamento delle istituzioni finanziarie senza soffocare l’iniziativa privata. Brown è molto attento a difendersi dall’accusa di aver abbandonato l’approccio pro-business che aveva caratterizzato le politiche del New Labour di cui lui è stato uno degli artefici. Tuttavia, insiste sulla necessità di un impegno da parte del pubblico potere nel campo dell’economia quando ciò è necessario per adempiere «l’imperativo morale» di «preservare l’occupazione e lo standard di vita» dei cittadini.

Confermando la sua reputazione di intellettuale che non ha paura di confrontarsi con i grandi temi del dibattito accademico, Brown argomenta la propria tesi che i mercati hanno bisogno di moralità per funzionare nell’interesse generale richiamando le opinioni di alcuni tra i più lucidi critici delle distorsioni del capitalismo contemporaneo, da Amartya Sen a George A. Akerlof e Robert J. Shiller. Di questi ultimi, riprende approvandola la critica degli assunti comportamentali dell’economia neoclassica. L’equità delle pratiche e delle istituzioni che sorreggono il funzionamento dei mercati è un fattore determinante per Brown, che andrebbe assicurato attraverso l’intervento della politica per promuovere una nuova governance globale. Sullo sfondo riemerge imponente la figura di John Maynard Keynes, di cui Brown riconosce l’acume nel suggerire modi per far fronte alla disoccupazione massiccia provocata dalla grande crisi degli anni trenta.
Molto diverso è l’approccio suggerito da Blair. Per il predecessore di Brown alla guida del partito laburista e del governo britannico la riduzione del deficit è la vera priorità cui dovrebbe tendere l’azione dei governi durante la crisi, prestando particolare attenzione a non scoraggiare l’iniziativa privata che sarebbe l’unico vero rimedio alla recessione. Anche in questo caso l’estroverso Blair scrive cose che il più pudico Brown lascia solo intuire. Come quando afferma di essersi sentito sempre a proprio agio tra gli uomini d’affari, e tutto sommato di non essere particolarmente turbato nemmeno dalla frequentazione di persone molte ricche. A un certo punto c’è un passaggio rivelatore, che è anche una delle non poche stoccate all’indirizzo del successore. Blair confessa di essere una persona che ha lavorato a servizio del pubblico, ma che avrebbe potuto perfettamente immaginare di vivere in modo completamente diverso, facendo l’imprenditore. Di Brown invece afferma che sarebbe difficile immaginarlo se non in un ruolo pubblico.

In fondo proprio questa ambiguità sui rispettivi ruoli e sui confini di pubblico e privato è uno dei tratti distintivi del Labour di Ed Miliband. Stretto tra la crisi, che suggerisce a molti una critica radicale dell’esperimento New Labour, e il timore di spaventare la finanza cui si deve buona parte della prosperità britannica negli ultimi anni. Si tratta di un dilemma che era già presente quando il New Labour era all’apice del successo, e alcuni intellettuali vicini al partito, come Jerry Cohen, indicavano la necessità di andare “Back to Socialist Basics”. Cioè tornare ai fondamenti del socialismo, i principi ispiratori di eguaglianza e solidarietà che Cohen vedeva messi in pericolo dalla quasi esclusiva preoccupazione di Blair per la modernizzazione economica e sociale del paese. Lo stesso dilemma ha verosimilmente schiacciato anche Brown, appannandone la statura di Leader. Meno incline di Blair all’entusiasmo per il nuovo, e più portato al dubbio, gia alla fine degli anni novanta l’allora Cancelliere dello Scacchiere ha cominciato cautamente a mettere in dubbio l’ortodossia economica e l’atteggiamento pro-business che egli stesso aveva contribuito a imporre al partito nella prima fase di elaborazione della strategia New Labour. Allo scioglimento di questo nodo è legato anche l’altro grande tema della politica britannica nelle ultime settimane: la relazione con l’Europa. Un tema su cui potrebbe giocarsi in parte anche il futuro del partito.