Che dire della manifestazione di sabato a Roma? Che è stata poderosa? La Fiom un tempo sapeva far di meglio. Che è stata ordinata? Ci mancherebbe altro, con Di Pietro e Ingroia a dirigere il traffico. Che non c’erano i grillini? Anche per loro un pifferaio magico basta e avanza. Che è stata chiara negli obiettivi? Questo proprio non si può dire. In particolare non si è capito quale sia “la via maestra”. E’ l’articolo 138, “via maestra” per emendare la Carta? Ma negli argomenti degli organizzatori e negli umori della piazza l’articolo 138 si è ridotto a un comma 22: “Il Parlamento dei nominati vuole modificare la Costituzione aggirando l’articolo 138; l’articolo 138 riserva esclusivamente al Parlamento dei nominati il diritto di modificare la Costituzione”.
Non se ne esce. Così come i 5 stelle, che hanno “occupato” la terrazza di palazzo Montecitorio per difendere l’intangibilità del 138, non escono dalla contraddizione in cui proprio sulla nostra rivista (potete leggerlo qui accanto) è caduto Paolo Becchi, la cui autorevolezza in seno al M5S ormai è certificata, dopo che la sua proposta di impeachment per Napolitano ha avuto l’onore della prima pagina sul blog di Grillo. Per Becchi, infatti, “l’art. 138 presupponeva l’esistenza di un sistema elettorale a scrutinio proporzionale di lista, non truccato come quello attuale da un premio di maggioranza”: perchè ”con il sistema elettorale vigente all’epoca dell’introduzione della Costituzione non era semplice mutare la Costituzione sulla base dell’art. 138, dal momento che conseguire la maggioranza assoluta (e tanto più quella dei due terzi) senza il concorso della minoranza era piuttosto difficile”, mentre ora “si può dire che la Costituzione è nelle mani della maggioranza di governo”.
Bisogna ammettere che l’argomento è buono, ed avrebbe tranquillamente potuto essere fatto proprio dal governo per motivare la deroga una tantum al 138 prevista nel disegno di legge costituzionale ora oggetto del contendere. Così come bisogna convenire che un approccio più inclusivo alla scelta dei “saggi” incaricati di spiegare al Parlamento che la forma di governo può essere presidenziale o parlamentare ci avrebbe risparmiato un sacco di chiacchiere inutili (nonché qualche velina diramata dalla Procura di Bari).
Se non è il 138, comunque, “la via maestra” è la Costituzione così com’è: col bicameralismo paritario, i mille parlamentari, i quattro livelli di governo territoriale, ed anche (spiace per Grillo) l’articolo 67. E non perché Gustavo Zagrebelsky ha teorizzato di recente che la prima e la seconda parte della Carta sono intimamente legate, come Cristo con la Chiesa secondo la dottrina del Corpo mistico. Più semplicemente perché la sua intangibilità è protetta dal comma 22.
Si dirà (lo notava qualche giorno fa sul Corriere Angelo Panebianco) che è curioso che chi ha in così gran dispitto l’attuale sistema politico sia poi pronto a procombere per la difesa dello status quo costituzionale. Ma per quanti sono pronti a brandire l’armi contro i trentacinque saggi di ieri e i quaranta costituenti di domani la Costituzione del ’48 non è una procedura, è un programma politico. E’ il programma di quella “rivoluzione promessa” che secondo Piero Calamandrei le sinistre ottennero in cambio della “rivoluzione mancata”. Una promessa che finora non è stata onorata a causa della scarsa virtù dei politici, ma che ora può essere messa all’incasso a prescindere dalla politica, se non contro di essa. E pazienza se Calamandrei era fra i pochi che alla Costituente preferivano il presidenzialismo al parlamentarismo: per i falsari acculturati che transitano dalle cattedre ai palchi è comunque un precursore; e per chi acculturato non è, come Travaglio, alla fine è soltanto un piduista ante litteram.