La giustizia in Italia è preda di un evidente paradosso.
La sua crisi, in ciascuno dei suoi settori e delle sue articolazioni, è sotto gli occhi di tutti, ed è riconosciuta da tempo immemore come una emergenza prioritaria: ma nessuno fino ad ora ha presentato un progetto di riforma incardinato sull’interesse generale, che qui come altrove significa tutela dei diritti e degli interessi delle persone, delle imprese e della pubblica amministrazione.
Il paradosso è che i responsabili di questo evidente disastro, a dire di chi vi sta dentro, devono essere cercati “al di fuori”: la magistratura non ha colpe; i lavoratori che operano al suo interno neppure; gli avvocati men che meno. La colpa è sempre delle risorse che mancano, delle leggi che non si fanno, della litigiosità degli italiani e della criminalità che cresce.
Non v’è dubbio che la limitatezza delle risorse incida sull’efficienza; ma non v’è altrettanto dubbio che se si applicasse seriamente la “spending review” al settore dell’organizzazione giudiziaria, assieme ad un quadro di precise responsabilità distribuite in capo a chi opera la suo interno, emergerebbero indicazioni utili per riformarla.
Il punto fondamentale è tuttavia uno solo, ed appartiene al campo delle scelte politiche: eliminare il paradosso che attanaglia la giustizia italiana. Chi si assume il compito di governo deve avere il coraggio di dire che la riforma della organizzazione giudiziaria passa inevitabilmente attraverso una chiamata “in correità” degli operatori del settore, che hanno tutti un nome preciso: magistrati, avvocati e dipendenti a tutti i livelli. Il governo è chiamato oggi a fare un salto di qualità sul piano politico, dando nuovamente voce ai principi costituzionali e proponendo un modello organizzativo ispirato all’efficienza e all’efficacia (perché non applicare anche qui, mutatis mutandis, i modelli organizzativi che il decreto legislativo 231/2001 ha previsto per enti e società?).
E’ possibile risolvere la crisi profonda della giustizia civile senza rivoluzionare l’organizzazione dei Tribunali, delle Corti d’Appello e della Corte di Cassazione, e scontrandosi, se necessario, con Anm, sindacati e Ordini forensi? E’ possibile risolvere il problema della “oscurità del diritto” senza mettere in campo una riforma che abbia come perno quel principio di certezza sul quale dovrebbe fondarsi ogni ordinamento democratico, e che rappresenta la garanzia del trattamento uguale di situazioni uguali sul quale si fonda il rispetto dei diritti e degli interessi delle persone?
Una legislazione “no frills”, semplice e senza fronzoli, rigorosa nei principi e orientata all’efficienza delle risposte, è oggi imprescindibile. Una legislazione che nel settore penale risolva alcune questioni di fondo che hanno nomi precisi: riserva di legge e riserva di codice, materialità, colpevolezza, rieducazione, principio di extrema ratio della pena. Da questi principi ne discendono altri, che si chiamano depenalizzazione, separazione delle carriere, riforma del codice di procedura penale (introducendo un modello puramente accusatorio). E che preveda – come proponeva Pietro Calamandrei e come ripeteva Federico Mancini – che la definizione delle linee di politica criminale nel nostro ordinamento appartiene alla legge e non può essere affidato né alle Procure della Repubblica, né alla Presidenza dei Tribunali, in quanto esso è di esclusiva prerogativa del Parlamento, che ogni anno dovrebbe fissare con legge le priorità nel perseguimento dei reati, risolvendo così l’altro paradosso-paravento del principio di obbligatorietà dell’azione penale che ogni giorno viene consapevolmente e volutamente violato.
Questo significa essere garantisti. Un garantismo che non significa trovare cavilli per fare in modo che tutti i poteri forti siano tutelati a danno di tutti coloro che sono senza potere, ma che nel ritorno a quei principi semplici, scritti nella Costituzione, richiami tutti al rispetto del primo e fondamentale principio, che non a caso si chiama “principio di democrazia”, e che si articola nel ritorno alla separazione dei poteri: il Parlamento fa le leggi, il governo le esegue, la magistratura le fa rispettare. Ma questa, parafrasando la battuta di un film, ” è politica, bellezza!”.
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