Il 4 aprile scorso si è svolto a Torino il convegno “Offrire possibilità, riattivare lo sviluppo – Psicopatologia in adolescenza e dispersione sociale”, volto fra l’altro a rilanciare il prezioso progetto “Un ponte tra ospedale e territorio”, avviato nel 2009 dai medici del Reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Regina Margherita di Torino con la Sezione ospedaliera della Scuola superiore di secondo grado associata all’Istituto Levi-Arduino di Torino, l’Associazione CasaOz e la Cooperativa Mirafiori. Per meglio cogliere il senso e gli obiettivi del progetto, anche alla luce di ciò che è emerso al convegno, ho rivolto qualche domanda ad alcuni dei professionisti e degli operatori che lo incarnano.  

Il complesso intreccio di fattori biologici, psicologici e sociali condiziona la salute e il benessere di ciascuno di noi. Ciò è forse più evidente in psicopatologia ed emerge con particolare forza in rapporto al disagio psichico di preadolescenti e adolescenti. Eppure non è facile offrire un approccio integrato. Cosa può suggerire al riguardo l’esperienza del Progetto “Un ponte tra ospedale e territorio”?

Antonella Anichini – In effetti, negli ultimi anni di assistenza ospedaliera si è evidenziato un vertiginoso aumento del disagio adolescenziale e una maggiore complessità della patologia psichiatrica, spesso associati al degrado sociale e a una scarsa tenuta della famiglia. In tale contesto il nostro riferimento teorico per valutare lo stato di salute del giovane e prescrivere un trattamento adeguato è il cosiddetto “modello bio-psico-sociale”: in particolare nell’adolescenza, gli aspetti biologici (lo sviluppo puberale) si intrecciano a quelli psicologici e sociali, ed è l’ambiente che può giocare un ruolo fondamentale nella prevenzione e nella ripresa, là dove il disturbo psichiatrico rallenta, o interrompe, il cammino dei ragazzi. Il progetto “Unponte tra ospedale e territorio”ha l’obiettivo di offrire agli adolescenti con psicopatologia un percorso di cura che ne sostiene il reinserimento sociale (con gruppi educativi e laboratori) e ambientale (con iniziative aperte alla città, nonché di riabilitazione alla scuola). Il cuore pulsante del progetto è il gruppo di lavoro multidisciplinare – formato da medici, insegnanti, educatori e volontari –che valorizza al massimo il contributo di ciascuna professionalità e riflette su di sé con un lavoro di supervisione settimanale. È un’esperienza innovativa che comporta una ricerca sistematica sui percorsi integrati di cura, “plasmando”, per così dire, un “contenitore” intermedio tra l’ospedale e il territorio, CasaOz, in cui i diversi operatori interagiscono e praticano un dialogo tra i diversi saperi.

A volte si parla di “territorio” in maniera un po’ retorica. Il territorio è di certo ciò che si trova all’esterno dell’ospedale. Ѐ anche ciò che precede e segue il ricovero in ospedale. Ed è, più in generale, il contesto di vita abituale degli esseri umani, più o meno sani, più o meno sofferenti. Cosa suggerisce al riguardo la vostra esperienza?

Orazio Pirro – La componente territoriale dei Servizi di Neuropsichiatria Infantile – fortemente integrata con le istituzioni educative sociali e scolastiche, oltre che con le componenti ospedaliere – rappresenta da sempre il fulcro organizzativo della rete nonché la sede principale per la presa in carico e la riabilitazione degli utenti, e ciò nella continua ricerca e la massima attenzione a evitare le istituzionalizzazioni e, possibilmente, i ricoveri, con risultati abbastanza positivi in termini di costo-efficacia. I dati regionali e della rete informatica dei servizi legati alla Neuropsichiatria Infantile NPI-Net mettono in evidenza che circa l’85% delle prestazioni e degli interventi nell’ambito della Neuropsichiatria Infantile vengono erogati a livello ambulatoriale-territoriale. L’ambito territoriale dovrebbe dimostrare una buona capacità di filtro rispetto al contenimento degli interventi in fase acuta attraverso la tempestività nella presa in carico, la capacità di rimodulare e di rivisitare situazioni a rischio di alta criticità, l’attivazione di progetti e percorsi di cura extra-ospedalieri con forte integrazione socio-sanitaria e l’erogazione di interventi educativi specializzati ad alta valenza terapeutica. In assenza di questa centralità territoriale, il rischio di ricoveri ospedalieri aumenta e con essi, ovviamente, i costi.

Oggi le parole paiono spesso inflazionate, per così dire. Eppure il titolo del convegno comprende due concetti – possibilità e sviluppo – densi di risvolti e di implicazioni. Si tratta, immagino, anche del messaggio di fondo dell’iniziativa.

Marco Fracon – Il depauperamento di senso e significato delle parole è certamente un problema. La domanda è: di oggi? Su questo non ho risposte, ma – per limitarci al convegno – la nostra scelta è stata di partire da una cosa (res) e parlarne. Il titolo, dunque, vuole esprimere la ratio della nostra iniziativa e ciò che, dalla nostra esperienza ormai quinquennale, possiamo tematizzare. La riflessione filosofica del secondo Ottocento e di buona parte del Novecento, dalla crisi dell’hegelismo in poi, in alcuni suoi filoni di pensiero mette a tema la possibilità come caratteristica dell’umano. L’uomo è una possibilità che deve esplicarsi, che non deve trasformarsi in impossibilità. Tuttavia, come è evidente, la possibilità è sempre precaria e rischiosa. È qui che si lega il concetto di sviluppo – peraltro uno dei più problematici nel contesto culturale attuale, e che noi “limitiamo” al campo educativo – come accompagnamento all’attuazione della possibilità e come rimozione degli impedimenti ad essa. Dopo cinque anni di lavoro, siamo convinti che le attività promosse dal progetto “Un ponte tra ospedale e territorio” siano state realmente occasioni di possibilità, perché alcuni adolescenti, che per qualche motivo hanno interrotto il loro sviluppo personale, riprendano a camminare verso un più sostenibile equilibrio umano e psichico.

L’adolescente tende a vivere e a esprimere il proprio dolore e il proprio disagio in maniera diversa rispetto agli adulti. Frequenti negli adolescenti, ad esempio, sono gli “agiti”, i cosiddetti acting-out. E vi sono aspetti di vita quotidiana, dal rendimento scolastico alle abitudini alimentari, tradizionalmente considerati distanti dall’ambito medico, che acquistano la valenza di veri e propri “segni” o “sintomi”. Come porsi dinanzi a ciò?

Antonella Anichini – I sintomi fisici, quali disturbi alimentari o somatizzazioni, e disturbi del comportamento, quali condotte autolesive, aggressività o disinvestimento scolastico, devono poter essere decodificati come richieste d’aiuto. Una cura vera ed efficace diviene possibile solo se i servizi designati alla presa in carico abbandonano l’autoreferenzialità e mettono in rete le loro risorse, creando una stretta alleanza con le agenzie educative. Mi preme qui sottolineare il ruolo centrale della scuola, sia nella prevenzione del disagio adolescenziale sia nel reinserimento, e quindi nella riuscita terapeutica degli adolescenti con psicopatologia. La scuola è il luogo elettivo in cui cogliere i segnali che i ragazzi lanciano, sia quelli più manifesti, come i disturbi della condotta, sia quelli silenziosi e sfuggenti lanciati da quelli che abbiamo voluto chiamare “studenti invisibili”, apparentemente adeguati, ma spesso tormentati da un’eccessiva preoccupazione per la valutazione, poco integrati nel gruppo dei “pari”, che a un certo punto presentano un calo nel rendimento o fanno assenze sempre più prolungate. È nostro dovere testimoniare la possibilità di recupero per tutti questi ragazzi attraverso un lavoro integrato tra sanità, scuola e servizi educativi.

Un autore come Armando Ferrari ha a suo tempo intitolato un libro “Adolescenza, la seconda sfida”. Al di là della formazione e della prospettiva teorica degli operatori, quel titolo forse condensa bene i mutamenti e le difficoltà dinanzi alle quali si trovano preadolescenti e adolescenti. E il posto che nella vita dei ragazzi di oggi hanno le cosiddette realtà virtuali rende il quadro ancor più complesso e sfaccettato. Anche da qui deriva l’esigenza del reinserimento sociale e scolastico protetto dei ragazzi con disagio psichico. D’altronde poter far leva sulla dimensione del fare è una risorsa. Cosa emerge dall’esperienza dei laboratori e delle attività creative che avete promosso? E come tendono a rapportarsi al cinema gli adolescenti che seguite?

Antonella Anichini – Se da un lato le realtà virtuali quali i social network permettono di mantenere vive relazioni distanti nello spazio, favoriscono la partecipazione e democratizzano informazione e conoscenza, dall’altro lato lo slogan “nel virtuale tutto è lecito” comporta il rischio di un diffuso anarchismo etico, i cui effetti si riverberano sia nel linguaggio sia nell’abbattimento della sfera della riservatezza, cosicché la comunicazione acquisisce contenuti e stili voyeuristici, narcisistici, esibizionistici e di consumazione rapida. Il rischio è ancora più evidente là dove il disturbo mentale interrompe i collegamenti con la realtà esterna: elevata è la possibilità di escludere il mondo reale, favorendo il ritiro sociale in vari gradi fino all’estremo, che vede la sostituzione dei rapporti sociali diretti con quelli mediati da internet. Con il laboratorio To net or not to net, ad esempio, lavoriamo sulle dinamiche di gruppo, e valorizzando le potenzialità di ognuno sosteniamo le capacità di un uso consapevole dei nuovi linguaggi e di creazione di legami e relazioni reali. Inoltre, con le diverse attività laboratoriali cerchiamo di privilegiare la dimensione del fare insieme. Nel laboratorio di cinema, che attuiamo in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema di Torino, i ragazzi lavorano insieme alla realizzazione di un cortometraggio, che è un’opera collettiva: per dirla con uno dei ragazzi, è come una “fabbrica”, dove ognuno svolge il proprio pezzo di lavoro contribuendo in modo imprescindibile al funzionamento generale. Il film proiettato sul grande schermo diventa così un prodotto di qualità e di ritrovata bellezza che esprime parti autentiche di sé.