Oggi Giuliano Vassalli, che è scomparso il 21 ottobre 2009, avrebbe compiuto cento anni: e ricordarlo per noi è il modo migliore per celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione.
Lo facciamo pubblicando di seguito il testo di quello che fu uno dei suoi ultimi interventi pubblici. Era il 13 marzo 2008, e l’associazione Walter Tobagi lo aveva chiamato ad illustrare “le ragioni dei socialisti” nel convegno  dedicato ad Aldo Moro ed allo scontro politico che si ebbe lungo i cinquantacinque giorni di prigionia dello statista democristiano.
Dopo, Vassalli ebbe ancora modo di partecipare alla costituzione della Fondazione Socialismo (in cui confluì l’associazione Tobagi) e di incoraggiare l’avvio della nuova serie della nostra rivista.
Prima, nel corso della sua lunga ed operosa vita, aveva incarnato al meglio – da partigiano, da giurista, da parlamentare, da ministro – il contributo dei socialisti italiani alla liberazione dal fascismo ed alla costruzione della democrazia repubblicana.

Prima di tutto mi dichiaro onorato di essere partecipe di questa riunione indetta dall’Associazione Walter Tobagi, che si intitola a un giornalista esemplare di alto valore, fedelissimo agli ideali del riformismo socialista, assassinato dalle Br attraverso una premeditazione, dai risvolti più oscuri di quelli abituali, e da persone le quali, pur essendo ree confesse di omicidio premeditato, sono state trattate dalla giustizia milanese in modo molto poco congruo.
Cercherò di attenermi strettamente al tema indicato nel titolo di questo convegno (Fermezza e trattativa trent’anni dopo), senza andare a ulteriori considerazioni di politica generale che non mi spettano e non sarei neanche all’altezza di poter fare. Il titolo dato al mio intervento è Le ragioni dei socialisti. Il Psi agì secondo ragioni condivise dalla grande maggioranza del partito, sia pure con tutto il rispetto per una minoranza che la pensava diversamente. Queste ragioni furono chiare e lineari fin da quando il partito assunse una posizione distaccata da quella di altri partiti: da quelli che erano effettivamente al governo, come la Dc, e da quelli che sostenevano il governo con la propria fiducia, come il Pci.
I primi quindici giorni successivi all’eccidio di via Fani e al sequestro di Moro sono molto importanti, in quanto precedono la diffusione delle tre lettere del prigioniero del 29 marzo 1978, di cui culminante quella al ministro dell’Interno Francesco Cossiga. Quei primi giorni trovarono anche il nostro partito in quello stato di smarrimento, di meraviglia, per la organizzazione straordinaria dimostrata nell’attentato di via Fani, e per la gravità del caso: perché Moro era stato più volte presidente del Consiglio, era il presidente della Dc, era la guida, diciamo, ideale del governo che egli aveva voluto in quella determinata composizione, ed era già una persona della quale seriamente si parlava come presidente della Repubblica di quasi unanimità per la fine dell’anno 1978. A questo riguardo ricordo benissimo i discorsi prima del tragico fatto, e ricordo le parole di Sandro Pertini, che dalle BR quando si insediò l’8 luglio del 1978 come presidente della Repubblica disse chiaramente che Moro «avrebbe dovuto essere qui al mio posto». Il rapimento di un così alto dirigente politico ci impressionò, così come impressionò tutti gli altri, e tutti formulammo il voto che la polizia o i servizi segreti potessero arrivare a qualche risultato.
Ma quando si arrivò al 29 marzo, e cioè alle lettere di Aldo Moro, le prime che furono diffuse, erano passati 15 giorni e chiaramente non si intravedeva niente. Le forze di polizia agivano sotto la guida del magistrato Infelisi nella ricerca di tutti gli indizi possibili e nella persecuzione di tutte le figure più o meno note di brigatisti non detenuti, ma si capiva che queste indagini non approdavano a molto.
In quei giorni il Psi versava in una posizione logisticamente particolare perché alla fine di marzo cominciava a Torino il Congresso nazionale del partito, per cui ci trovammo tutti insieme, sia nell’aula congressuale che fuori (alloggiavamo quasi tutti nello stesso albergo, l’albergo Concorde di via Lagrange) a discutere di questo che era l’episodio culminante della vita politica italiana.
Il 31 marzo, quando il Congresso si inaugurò, era appunto l’indomani della diffusione delle lettere di Moro. De Martino (che non era più segretario del partito, ma ne era esponente eminente) disse testualmente questa frase, parlando del rapimento di Moro: «Io mi auguro che il problema venga affrontato con la riflessione necessaria, esaminandone tutti gli aspetti, tenendo conto di tutti i precedenti e del modo con cui si sono comportati gli altri Stati che hanno agito con fermezza» (è la prima volta, forse, in cui compare la parola fermezza) «ma che hanno tentato con tutti i mezzi di salvare la vita dell’ostaggio».
Questo ci fece riflettere, naturalmente. Eravamo tutti concordi su questa impostazione, ma bisognava trarne alcune conseguenze. Ne parlammo, ne parlai in modo particolare anch’io, nei corridoi del Congresso e al Concorde, con Bettino Craxi, facendogli presente anche la mia amicizia grandissima e fraterna con Moro, con il quale condividevo lo stesso mestiere di professore penalista: ma precisandogli che non era solo la grande amicizia a spingermi a dare seguito all’invito di De Martino per cercare «con tutti i mezzi di salvare la vita dell’ostaggio».
Una delle prime cose fu di vedere se si poteva ricavare qualche indicazione utile dai capi delle Br sotto processo nella stessa città di Torino in un contesto assolutamente drammatico, quale era anche a prescindere dal rapimento Moro: perché anche il processo alle Br alla Corte di Assise di Torino non è che si fosse celebrato senza incidenti o senza grandi pericoli. E ci venne spontaneamente alla mente di mettere in movimento l’avvocato Giannino Guiso, che non so se fosse iscritto al nostro partito o forse semplicemente simpatizzante, ed era difensore di Renato Curcio. Guiso parlò in carcere con Curcio. Curcio, naturalmente, fu sfuggente, ma disse questa frase: «Dialettizzatevi con Moro». Questo messaggio, che non fu certo tenuto occulto, ma fu da noi diffuso e fatto presente, ci giunse appunto immediatamente dopo le famose lettere di Moro, fra cui quella rivolta a Cossiga.
Secondo aspetto: il richiamo ai precedenti nel discorso di De Martino era presente anche nella prima delle tre lettere di Moro, quella, fondamentale, a Francesco Cossiga. Aldo Moro scriveva testualmente: «Il sacrificio degli innocenti in nome di un astratto principio della legalità, mentre un indiscutibile stato di necessità dovrebbe indurre a salvarli, è inammissibile. Tutti gli Stati del mondo si sono regolati in modo positivo, salvo Israele e Germania, ma non per il caso Lorenz». Puntualissimo Moro in tutta questa lettera, in cui diceva anche che era consapevole della gravità della sua situazione, di essere prigioniero “sotto il dominio pieno e incontrollato delle Br”: ma aveva le idee chiarissime, le esprimeva con estrema chiarezza e con estrema precisione, e in modo particolare indicava la via.
Come si erano comportati gli altri Stati? È vero, salvo Israele, perché Israele, come tutti sanno, aveva preso sin dall’inizio della sua travagliatissima vita la decisione di non cedere mai su nessun punto e per nessun motivo. Quanto alla Germania («salvo per il caso Lorenz»), in Germania c’era molto di più che il caso Lorenz. Quando studiammo questi documenti (in modo particolare, per il mio mestiere, li studiai io), vedemmo che nel 1975 un dirigente democristiano, Peter Lorenz, era stato liberato in cambio del rilascio di ben 5 terroristi (si dicevano allora terroristi anarchici, forse saranno stati già della Raf, che è già operativa nel 1975).
Ma, poi accadde che nel 1977, tra gli altri attentati di cui era costellata anche la vita della Germania federale, in modo particolare per l’attività della Raf, si presentò il caso Schleyer, Hans Martin Schleyer, presidente degli industriali tedeschi, era stato anch’egli preso in ostaggio. I terroristi chiesero la liberazione dei loro compagni detenuti, come era avvenuto nel caso Lorenz. Il caso fu portato al Tribunale federale costituzionale (la Corte costituzionale tedesca), e vi fu portato perché (essendovi in Germania il ricorso diretto, cosa che noi non abbiamo) il figlio di Hans Martin Schleyer si era rivolto alla Corte, domandando che fosse stabilito l’obbligo di liberare alcuni detenuti in cambio del proprio padre. E di altri precedenti, che Moro ben sapeva,  parlò in altre lettere: il precedente dei palestinesi, i quali erano stati pochi anni prima, anche su suo impulso, liberati per la minaccia concreta di attentati nel territorio italiano, che infatti, pur essendo stati organizzati, non si verificarono.
Né poteva valere quello che si cercò di far valere molto impropriamente a proposito degli assassinati di via Fani. Nessuno dimenticava le cinque vittime di via Fani, né intendeva dimenticarle in futuro. Però non si poteva evocare un principio di parità per cui, essendo stata assassinata la scorta, si doveva lasciare assassinare anche l’ostaggio: dove sta questo principio? Allora, quando il Cile di Pinochet ha liberato Corvalan per darlo all’Unione Sovietica a seguito di uno scambio, si doveva dire «no, per carità, non si deve liberare Corvalan, perché tanti comunisti del partito di cui egli è segretario sono morti assassinati, o stanno nelle carceri di Pinochet per essere assassinati»? È un discorso che porta troppo lontano, è un discorso che non può essere accettabile, quello per cui dove vi è stata una vittima bisogna che tutti diventino vittime.
Quindi, esaminati tutti questi risvolti, noi troviamo che bisognava pure prendere una iniziativa. E invece si formò questo partito della durezza, questo partito della non trattativa, che in sostanza era il partito che esprimeva la volontà di non decidere, di non far niente, come ha detto Giovanni Moro quando ha rivelato analiticamente la tragedia del proprio padre. Per carità, tutti auspicavano la liberazione di Moro, a cominciare dalla Dc, come è logico. Ma tutti speravano che questo potesse avvenire casualmente, per un colpo di fortuna della polizia.
Vorrei precisare una cosa: nel titolo dell’incontro odierno si parla di trattativa, ma non c’è mai stata trattativa, non c’è mai stato tentativo di vera e propria trattativa che non fosse quello di un gesto liberatorio per vedere che cosa avrebbero fatto o non fatto le Br: per avere solo la speranza, non già la certezza, di ottenere qualche risultato. Quale trattativa? Tutte le trattative consistono nel fatto che due esponenti del Partito socialista avevano incontrato una o due volte Lanfranco Pace, che non era terrorista (apparteneva ad Autonomia): e non si è mai saputo chi poi Pace abbia raggiunto, senza seguito ulteriore. Queste non erano trattative, ma erano sondaggi, per sapere che cosa si poteva sapere dal campo avverso, che potesse orientare il nostro atteggiamento e le nostre iniziative. Poi ci fu solo l’incontro del giudice Vitalone con Daniele Pifano, che tutti sanno che soggetto fosse. E basta: consultazioni, tentativi di consultazioni.
La realtà è che si sono urtate due linee. Una chiamiamola pure «della fermezza», perché così la vogliono chiamare i suoi sostenitori (che da qualcuno del nostro campo veniva addirittura ridicolizzata per la sua inefficienza, e che consisteva nel lasciare uccidere l’ostaggio); e l’altra era invece la linea di una iniziativa, di fare qualche cosa.
Detto questo, io vorrei far presente  ancora la posizione di Aldo Moro: non perché avessimo bisogno di dar retta al suggerimento di Curcio («dialettizzatevi con Moro»), ma perché c’erano indicazioni importanti in ciò che scriveva il prigioniero, che era un uomo completamente padrone di se stesso, contrariamente a quello che si è cercato di dire da parte di chi ha sostenuto che le sue lettere non erano «a lui ascrivibili».
Anche su questo aspetto, del resto, Moro replicava con grande lucidità: prima in una lettera a sua moglie («dicono che non sono io»), e poi alla fine, quando dirà sostanzialmente «ma sono io con i miei discorsi qualche volta oscuri, sono io con la mia calligrafia, sono io che chiedo». Era un uomo che diceva appunto consapevolmente queste cose, che poi ripeté al segretario della Dc Benigno Zaccagnini nella lettera del 24 aprile, in cui si chiede perché l’Italia ha un altro codice rispetto alla prassi seguita da altri paesi.
Vi era inoltre la forza del Partito comunista che era entrata in campo, e che doveva fare i conti con tutti i suoi problemi, anche in confronto con la più «umana posizione socialista». Il Partito Comunista io non lo tocco, lasciamolo da parte: è chiara la situazione in cui si trovava, vedi Rossana Rossanda, vedi l’album di famiglia, vedi Gallinari, vedi la volontà fermissima del Pci in quel tempo di presentarsi come il massimo fautore della legalità e della normalità della vita del paese. E va bene, quella era la sua strada. Ma quello che è difficile capire è la strada della Dc: perché l’Italia ha un altro codice?
Detto questo, Moro farà ancora vari ragionamenti, nella lettera a Craxi, nella lettera a Dell’Andro; e vi è una frase famosa, io ora la cito a memoria, che dice «che cosa va in rovina? Va in rovina lo Stato se uno viene liberato e l’altro va, invece che restare in galera, va in esilio?». Parlava ripetutamente di uno. Ora non dico che la liberazione di un solo terrorista sarebbe bastata. Nessuno osa dirlo, nessuno osa dire che cosa sarebbe successo se si fosse seguita la linea da noi propugnata: ma bisognava fare qualche cosa, bisognava tentare. E il fatto decisivo avvenne tra il 18 e il 20 aprile.
Il 18 aprile, come tutti sapete, avvenne l’episodio del lago della Duchessa, che è uno degli episodi rimasti misteriosi, perché le Br negano che sia stata una loro iniziativa, come invece sembrerebbe: in quanto distolse tutte le forze di polizia da Roma, e Moretti e Balzarani potettero lasciare via Gradoli (altro capitolo un po’ speciale della vicenda). Il 20 aprile, due giorni dopo, ci fu la famosa richiesta dei brigatisti (di coloro che detenevano Aldo Moro): i quali, sia detto per inciso, non chiesero mai nessun riconoscimento da parte della Dc, anche se si diceva sempre che non si poteva far niente perché avevano chiesto il riconoscimento da parte della Dc: mentre io non conosco documenti, non conosco cose da cui risulti che avevano chiesto di essere riconosciuti dalla Dc. Solo in uno degli ultimi giorni vi fu in uno dei messaggi delle Br l’accenno al fatto che esse attendevano una risposta dalla Dc.
Avevano invece richiesto, il 20 aprile, la liberazione di 13 di loro, in testa Curcio e Franceschini, capi storici delle Br. Chiesero questo ed era troppo: era veramente troppo e addirittura provocatorio, perché ricorderete che nell’elenco all’ultimo posto c’era Cristoforo Piancone, che era stato preso pochi giorni prima dopo aver assassinato l’agente di polizia Cotugno. Quindi era chiaro che non si poteva partire da quell’elenco. Ma si poteva pescare anche in esso indagando sui casi nei quali senza eccessiva lesione della legalità si potesse fare qualche gesto di carattere sostanzialmente umanitario. Studiavamo le posizioni una per una, e quando scoprimmo che in questo elenco c’era Paola Besuschio fu facile per noi controllare che Paola Besuschio non aveva ucciso nessuno, che era stata condannata per tentato omicidio a pochi anni di reclusione, che non le sarebbe stato impossibile ottenere la grazia. Se non che vennero frapposti degli ostacoli di carattere giuridico, che in realtà erano ostacoli di pura prassi: perché è pura prassi quella per cui non si dà la grazia a chi aveva altri processi pendenti (che nel caso specifico erano processi per reati associativi).
Cercavamo – come detto, e come del resto Craxi diceva sempre – di agire nella legalità, o comunque senza una eccessiva lesione della legalità stessa. Il rispetto totale della legalità era eccessivo pretenderlo, diciamolo pure. Ma un piccolo strappo si poteva fare, visto che non c’è mai stato nessun vincolo di legge alla concessione della grazia quando c’è un altro procedimento pendente: è la prassi, una prassi giusta, una prassi spiegabile, una prassi da tempi di normalità. Ma nel momento di eccezionalità si poteva benissimo disattendere questa che non era altro, ripeto, che una prassi, e non un principio giuridico. E invece non fu fatto. La Besuschio non potette essere liberata.
Ci mettemmo alla ricerca di altri casi (ciò che richiese impegno, competenza, tempo e fatica), e ci imbattemmo nel caso Buonoconto, trovando che era un caso tipico da libertà provvisoria. Perché pescammo il caso Buonoconto? Oltre che per la segnalazione che ci aveva fatto l’avvocato Siniscalchi, che era al corrente dei precedenti di questo disgraziato (disgraziato perché poi fu liberato, indipendentemente, tempo dopo, e si suicidò, dopo avere vagato inutilmente per le strade d’Italia), perché questo era un nappista, e nell’elenco dei tredici c’erano dei nappisti, non c’erano solo brigatisti.
Poi sopraggiunse la tragedia del 9 maggio, perché naturalmente il tempo passa, e nonostante le insistenze che c’erano state e i tentativi che erano stati fatti, non eravamo riusciti a niente. Della fine imminente Moro era consapevole. Nella lettera alla moglie Eleonora, che precede di pochi giorni l’esecuzione, e che fu recapitata il 5 maggio, scrive: «Il Papa ha fatto pochino, forse ne avrà scrupolo». Nella certezza assoluta della morte, di essere assassinato da un’ora all’altra, Moro era tanto padrone di se stesso che riusciva persino a fare, rispettosamente, dell’ironia sul comportamento del Papa. Questo è l’uomo a cui non sarebbero state ascrivibili le proprie lettere, le proprie azioni: «Vorrei capire –  parla di un sogno – con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo: se ci fosse luce, sarebbe bellissimo». Ecco questa è la figura dell’uomo che è stato, oltre che assassinato, in un certo senso vilipeso, asserendosi che quello che egli diceva non era giusto, non era vero, era frutto di paure, di timori.
È veramente una vicenda assurda, se si pensa non solo a quello che era accaduto prima, ma a quello che è accaduto dopo. L’uomo più legato allo Stato, che impersonava in un certo senso la ragion di Stato, venne assassinato senza che lo Stato in qualche modo facesse qualche tentativo in suo favore. Ebbene: questo uomo è l’unico ostaggio che è stato assassinato in prigionia nonostante fosse stata fatta dai rapitori una richiesta (i casi dell’ingegner Taliercio e del fratello di Patrizio Peci furono barbari assassini non preceduti da alcuna richiesta). Mentre per ottenere la liberazione di Sossi erano stati arbitrariamente liberati dalla Corte d’Assise di Genova diversi terroristi, e poi ci rimise la vita, col suo ricorso contro quella sentenza, il compianto magistrato Francesco Coco, assassinato sulle scale di Santa Brigida, in via Balbi a Genova.
E dopo? D’Urso, il magistrato D’Urso, fu liberato per trattative con le Br, che dopo il preannuncio della chiusura del penitenziario dell’Asinara in una vicenda tutta intessuta di giornali radio, si accontentarono che la figlia si prestasse ad andare in televisione a dire «quel boia di mio padre» Non parliamo poi della vicenda, certamente poco nobile, della liberazione dell’assessore napoletano Cirillo.
L’unico a dover morire, nonostante l’offerta dello scambio, era il presidente della Dc, il già presidente del Consiglio, il più probabile candidato alla Presidenza della Repubblica. Certamente si possono rispettare i punti di vista opposti, quando non presi aprioristicamente, ma presi dopo un attento ragionamento: come diceva De Martino, dopo una riflessione su tutti i risvolti, dopo una riflessione del tipo di quella che il governo tedesco di Helmut Schmidt andò a fare attraverso l’Avvocatura dello Stato davanti alla Corte costituzionale, squadernando tutte le ragioni che avrebbero portato, ad avviso del governo, a un disastro se vi fosse stata una trattativa per la liberazione di Schleyer.
Per Moro, invece, apriorismo totale, incapacità dei servizi segreti, disorganizzazione, silenzio, chiacchiere: questa è la pagina tristissima della storia recente italiana, che ancora stiamo a ricordare trent’anni dopo e che per molte ragioni dovrà essere sempre ricordata.