Mi hanno raccontato che la notte estiva scorse tranquilla e m’immagino che non sia stata diversa da tante altre che ho conosciuto direttamente in epoche più recenti: una calda notte d’agosto passata in una Hospoda (osteria) a bere birra e mangiare gnocchi ed a parlare di recenti Campionati Europei di calcio che avevano incoronato l’Italia Campione d’Europa dopo una finale giocata due volte. Oppure di politica con il nuovo corso di Dubcek e Svoboda intenti a dare un volto umano a quel “socialismo reale” che nulla aveva a che spartire con le esperienze dei nostri Partiti Socialisti, Socialdemocratici e Laburisti dell’Occidente.
Insomma una conclusione normale di una giornata di fine estate iniziata al lavoro o per chi si trovava in dovolena (ferie )in una delle splendide koupaliste (piscine naturali) o in qualche località di campagna o di montagna dove ogni cecoslovacco deteneva (e detiene ancora) la “rodiny dum” la casa di famiglia simbolo di un legame con la terra ed i suoi frutti mai completamente reciso.
L’amara sorpresa l’indomani con i carri armati del Patto di Varsavia (Romania esclusa) che sfrecciavano sulle tranquille strade dei paesi già avvvolti nella calda mattina dell’est europeo, dove il sole si sveglia presto e con esso la gente e le loro attività.
Mi hanno parlato di incidenti ed investimenti mortali premessa della scia di sangue e violenze che si protrassero nei sei giorni successivi con Dubcek e Svoboda ormai neutralizzati.
Poi l’epilogo, la “normalizzazione”.
Philip Kaufman rende bene l’idea nella scena del passaporto non riconsegnato a Tomas rientrato dalla Svizzera per raggiungere Tereza, nel film “L’insostenibile leggerezza dell’essere” tratto dall’omonimo romanzo di Milan Kundera.
Ma la storia di dolore non sarebbe finita lì.
Il 19/01/1969 (cinquantennale delle prime elezioni svoltesi nel nuovo Stato nel 1919) lo studente Jan Palach si dette fuoco in Piazza San Venceslao seguito il 25/02/1969 (data del colpo di Stato comunista nel 1948) da Jan Zajic, altro studente che si immolò allo stesso modo, testimonianza dell’esistenza di una sorta di “catena di S.Antonio”, pronta a ripetere il gesto in occasione di date e ricorrenze ben precise, allo scopo di mantenere vivo l’interesse della comunità internazionale sulla situazione cecoslovacca.
E qui, senza entrare in un patetico “amarcord” devo confessare una cosa: mi sono sempre chiesto perchè in quel caso, come del resto in altre circostanze, si sia dovuto morire per garantirsi un diritto naturale come la libertà, perchè arrivare al gesto estremo.
Forse la risposta l’ho trovata in una lettera spedita alla propria famiglia da Jan Zajic, il secondo martire di Piazza S.Venceslao, forse, sicuramente a torto, il meno noto in Occidente.
Scriveva Zajic poco prima di morire :
Mamma, papà, fratello e sorellina! Quando leggerete questa lettera sarò già morto o molto vicino alla morte. So quale profonda ferita provocherà in voi con questo mio gesto, ma non preoccupatevi per me……Non lo faccio perchè sono stanco della vita, ma proprio perchè la apprezzo. E la mia azione ne è forse la migliore garanzia. Conosco il valore della vita e so che è ciò che abbiamo di più caro. Ma io desidero molto per voi e per tutti, perciò devo pagare molto [….]
(Jan Zajic, Lettera ai familiari,1969).
In queste parole tutta l’essenza dell’accaduto, il dover morire per andare “oltre”, verso la libertà, anche a prezzo del bene più caro.
P.S. A proposito SVOBODA in ceco vuol dire LIBERTA’. Curioso no?
Il 21 agosto 1968 ero a Roma. A piazza Navona incontrai un giovane amico cecoslovacco che nei mesi precedenti era stato fra le punte di lancia del movimento studentesco. Fu lui a dirmi per primo del comunicato di condanna del Pci, che in qualche modo lo ripagava dell’angoscia in cui era caduto dopo che l’Urss non aveva mancato di fornire il proprio “aiuto fraterno” ai comunisti cecoslovacchi. Io stesso pensai che il ’68 praghese, per il Pci, sarebbe stato quello che per il Psi era stato il ’56 di Budapest, e che per giunta questa volta neanche il movimento studentesco avrebbe sbagliato strada. Qualche giorno dopo, però, andai a Milano, e vicino all’università, in via Festa del Perdono, vidi che qualcuno (forse Capanna) aveva aggiunto un “da pirla” al “viva il socialismo dal volto umano” che qualcun altro (forse Martelli) aveva scritto sul muro. E l’anno dopo mi stupii perchè un comunista cecoslovacco che era riuscito a fuggire, e che si chiamava Jiri Pelikan, non era stato ricevuto nè a Botteghe Oscure, nè a via del Corso, ma aveva avuto ascolto solo nella nostra sede dell’Acpol, prima di trovare la strada dello studio di Craxi a piazza Duomo.