Riproponiamo l’intervista al direttore Luigi Covatta pubblicata il 2 luglio scorso sul sito internet 10WH, curata da Antonio Romano
Essendo uno dei creatori del famigerato corso di laurea in Scienze della Comunicazione, ci puoi raccontare come nacque?
Nel 1988, quando ero sottosegretario alla Pubblica istruzione con delega all’Università, venne a trovarmi Diego Marconi, giovane filosofo torinese che conoscevo dai primi anni ‘70, perché con Gian Giacomo Migone partecipava alle attività dell’Acpol, l’associazione di cultura politica fondata da Livio Labor e Riccardo Lombardi. Insieme con Maurizio Ferraris mi sottopose un progetto che mirava anche a svecchiare la Facoltà di Lettere. Anni prima, con lo stesso obiettivo, era stato istituito il corso di laurea in Conservazione dei beni culturali, che però non aveva dato buona prova. Per cui maneggiai con la massima cura questa nuova proposta. Decisi per una sperimentazione a numero chiuso da svolgere solo in tre sedi: ovviamente Torino, e poi Salerno (dove insegnava Alberto Abruzzese) e Siena, della serietà del cui rettore (Luigi Berlinguer) mi fidavo parecchio. Nel 1989 lasciai il ministero della Pubblica istruzione, e solo qualche anno dopo appresi che quei tre corsi “sperimentali” nel frattempo si erano miracolosamente moltiplicati, e che ce n’era uno perfino a Roma, università che di tutto aveva bisogno tranne che di allargarsi. La notizia la ebbi dal figlio di un mio amico che si apprestava ad iscriversi: e che adesso, dopo essersi laureato a pieni voti, fa l’edicolante a Ponte Milvio. Può darsi che sia stata carente l’offerta formativa. Sicuramente, però, è inesistente la domanda. Le redazioni in cui si mangia pane e “società della conoscenza” (e dalle quali si alzano quotidiani lamenti per la disoccupazione giovanile) sono piene di precari pagati un tanto a riga. Debbo dire che nello stesso periodo bocciai la proposta di adottare il “3 più 2” per la laurea in Economia e commercio, perché da una consultazione coi datori di lavoro (a cominciare dall’Abi) verificai che per la laurea triennale non c’era domanda: ma il mercato del lavoro dei bancari, evidentemente, è meno opaco di quello dell’industria culturale.
In Italia si sta ponendo la questione della “politica come professione” e, di conseguenza, dell’“antipolitica”: potrebbe essere che i cittadini non ritengano più la politica un lavoro adatto a tutti e abbiano bisogno di professionisti o che non si rendano conto di com’è complessa la gestione della cosa pubblica o qualcos’altro?
In Italia è stato distrutto un ceto politico, e non ne è stato creato un altro. Quello in servizio è fatto di cacicchi locali che amministrano un piccolo peculio di preferenze clientelari e che incidono sulla politica nazionale solo in una logica confederale (da non confondersi con quella federale). Anche per questo nel Parlamento dei “nominati” c’è il più alto tasso di trasformismo dai tempi di Depretis. Ed anche per questo si diffonde l’antipolitica. Se poi mi chiedi come si forma un ceto politico, senza scomodare Max Weber ci si può riferire ad una complessa alchimia che mescola regole istituzionali, vocazioni individuali, opportunismi, convinzioni e grandi e piccoli eroismi. Moro, in un congresso, definì Piccoli “un misto di opportunismo e di abnegazione”: nel caso non era una definizione encomiastica, ma ci poteva stare proprio perché realistica. Moro infatti perse quel congresso, forse anche perché la maggioranza dei congressisti di identificò in quell’ossimoro piuttosto che aderire alla sua invettiva. Sta di fatto che la Repubblica e la ricostruzione l’hanno fatta i politici di professione. E che ancora ai miei tempi non erano i peggiori ad intraprendere la carriera politica: Martelli era il più brillante nel mio corso, ed appena laureato uno tignoso come Mario Dal Pra lo scelse subito come assistente. Dopo non sempre fu così, e spesso alla carriera politica si dedicò chi non aveva alternative professionali. Se infine vuoi sapere se sia necessario creare e mantenere un ceto politico, la risposta è tre volte sì: innanzitutto perché nella società dell’interdipendenza globale o comandano i politici o comandano le multinazionali (che lasceranno volentieri agli eletti il potere decisionale sui parchi giochi e sulla raccolta differenziata); poi perché solo il ceto politico può operare scelte di valore indigeste alla pancia del “popolo” (Churchill che promette “lacrime e sangue”); ma anche perché un ceto politico relativamente stabile, e che si riproduce con una certa lentezza, protegge la cittadinanza dalle avventure dell’ideologia. Il Terrore si affermò con la Convenzione, i cui membri non potevano essere rieletti.
Pensi che in Italia si siano fatti i conti col portato del processo Enimont?
Non so a cosa ti riferisci. A Di Pietro che si accanì contro Forlani con la bava alle bocca mentre fu intimidito dalla coraggiosa deposizione di Craxi? O al primo emergere della categoria dei “rampanti”, emblematicamente rappresentata da Cusani? O infine all’inizio della tragica fine di Gardini e dei Ferruzzi? A proposito dei “rampanti” (che non mi sono mai stati simpatici) consentimi però di ricordare che molti di loro furono leali e generosi nei confronti dei danti causa. Ad uno che si era rifiutato di rispondere venne negato il permesso di partecipare al funerale di sua madre. Un altro, che peraltro non aveva neanche la patente, si intestò una passione per le automobili di lusso per giustificare il flusso di denaro che passava per le sue mani. Molti di loro si erano formati nei movimenti studenteschi del ’68, un contesto in cui il concetto di “legalità” non era particolarmente apprezzato. E talvolta si trovarono di fronte compagni che invece del “controllo di legalità” avevano fatto un’arma. Forse Mani pulite può essere intesa anche come una resa dei conti fra rivoluzionari mancati.
Qual è stata l’atmosfera, nelle diverse fasi, di Mani Pulite?
In parte ho già risposto. Ed in gran parte ne ho scritto, specialmente in un volume curato da me e Acquaviva (Il crollo, Marsilio, 2013). Mi risparmio quindi tutte le chiacchiere sul “complotto”, sulle “toghe rosse”, e su altre leggende metropolitane. Il che non significa che le iniziative della magistratura siano state casuali e non abbiano risposto ad una strategia politica: politica all’ennesima potenza, anzi, come quella che ha per oggetto niente di più e niente di meno che la distribuzione del potere. La magistratura, insomma, non fu eterodiretta. Semmai strinse qualche alleanza, che comunque non condizionò la sua strategia militarmente esemplare. Prima bombardò a tappeto il territorio nemico. Poi scelse e colpì i suoi obiettivi. Il territorio da bombardare, peraltro, era abbastanza delimitato. Molti infatti dimenticano che nel 1990 era stata votata un’amnistia che riguardava tutti i reati con pena inferiore ai quattro anni commessi entro il mese di novembre del 1989, fra i quali quelli relativi alla violazione della legge sul finanziamento dei partiti. Il grosso delle azioni promosse da Mani pulite, quindi, si riferiva a reati commessi fra la fine del 1989 ed il 1992. In buona parte erano reati bagattellari. Io per esempio, che versavo mensilmente un milione di lire alla federazione socialista di Ferrara, ero perseguibile per avere omesso di comunicare alla presidenza della Caera quel finanziamento, la cui entità sforava il tetto di cinque milioni previsto dalla legge. La nostra ipocrisia aveva fatto sì che anche queste inadempienze venissero sanzionate penalmente. Ma quando, ai primi di marzo del 1993, il governo fece suo con un decreto il testo che avevo fatto approvare (senza troppa fatica) dalla I Commissione del Senato, e che prevedeva la depenalizzazione di quelle inadempienze, non a caso il pool di Milano insorse ed il timido Scalfaro si rifiutò di firmare il decreto. Da quel momento tutto quello che fino al giorno prima era tollerato diventò improvvisamente proibito. Questa era “l’atmosfera”, non proprio respirabile. L’odore più nauseabondo, comunque, veniva dalle cattedre giornalistiche. A Milano i cronisti giudiziari avevano pubblicamente costituito un pool parallelo a quello giudiziario (dal quale si chiamò fuori solo Frank Cimini, allora inviato del Mattino, che ancora interviene ogni tanto sul Foglio a commentare le mascalzonate passate e presenti di Di Pietro). A Roma, invece, c’era il pool dei direttori (Stampa, Repubblica, Corriere ed Unità) che ogni sera concordavano la linea. Piero Sansonetti, allora condirettore dell’Unità, ha testimoniato qualche anno fa di aver dovuto sostituire in un quarto d’ora un pezzo benevolo verso il decreto Conso perché così avevano deciso i quattro direttori. Ci sono comunque due questioni che questo giornalismo da corridoio ha eluso. Innanzitutto: come mai i guai giudiziari di Berlusconi sono cominciati con la sua “discesa in campo”? Prima era uno stinco di santo? Oppure contava troppo poco rispetto a Romiti, De Benedetti e Gardini, che pure non vennero risparmiati dalle inchieste? La seconda: come mai il Pci chiuse l’Unità e mise in vendita il Bottegone? Erano finite le salamelle?
Infine: nella mia formazione ha avuto un peso significativo il giornalismo d’inchiesta che smontò i teoremi polizieschi sulla strage di piazza Fontana. Allora un giornalista che metteva in pagina pari pari le veline della Questura venne licenziato dal Corriere e radiato dall’Ordine. Possibile che lo stesso Ordine non abbia trovato niente da censurare in comportamenti evidentemente estranei all’etica professionale?
Ci disegni i profili di tre personaggi futuribili che potrebbero fare la differenza in questo momento politico e sociale?
Immagino che “futuribili” significhi personaggi che attualmente non calcano la scena, e gli studi giovanili su Marx mi inducono a diffidare di ricette per le osterie dell’avvenire. Se proprio devo, quindi, preferisco pensare all’evoluzione di persone in carne ed ossa. Per esempio mi piacerebbe che Renzi smettesse di essere Narciso e diventasse quel Telemaco che aveva detto di voler essere: un giovane consapevole del proprio valore, ma non per questo indifferente alle proprie radici (che ad ogni buon conto non possono essere quelle del riformismo che non c’è mai stato, egregiamente rappresentato dal santino Moro-Berlinguer). Mi piacerebbe che un sindacalista come Marco Bentivogli, che ha avuto il coraggio di firmare gli accordi grazie ai quali a Melfi e a Pomigliano d’Arco sono state assunte migliaia di persone, inducesse i suoi colleghi a contrattare le condizioni del lavoro che c’è invece di difendere le tutele del lavoro che non c’è più. E mi piacerebbe che nascesse un altro Umberto Eco, per organizzare la diffusione della cultura e la trasmissione del sapere secondo canoni diversi da quelli definiti a suo tempo da Giuseppe Bottai e da Giovanni Gentile.
Si parla spesso di semplificare l’azione dell’esecutivo, di velocizzare la macchina burocratica e di rendere efficiente il mondo del lavoro come evoluzione necessaria per l’Italia: ciò si traduce in riforme costituzionali combattute, inchieste per assenteismo senza ricadute benefiche sul rapporto fra cittadino e macchina statale, ed erosione dell’affidabilità del lavoro come ascensore sociale, insomma senza benefici avvertibili per gli elettori. Cos’è che non funziona nel meccanismo?
Non funziona l’inevitabile asimmetria fra i tempi della decisione e i tempi della riscossione dei benefici. Ma il rimedio, ovviamente, non è quello di allungare i tempi della decisione, in modo che l’asimmetria si noti meno. C’è un problema organizzativo e un problema culturale. Il primo può essere risolto razionalizzando (e riducendo) i centri di spesa e riqualificando la pubblica amministrazione (se non altro per far sì che l’assenteismo effettivamente causi un danno ai cittadini, mentre assentarsi da un’amministrazione inefficiente, come dici tu, produce solo il danno estetico del vigile in mutande). Ma il problema da risolvere è il secondo. Bisogna stabilire un nuovo rapporto di fiducia fra i decisori e i cittadini. Sorel diceva che ci voleva un mito per accompagnare il proletariato nel lungo cammino verso la rivoluzione. Adesso qualcuno si è accorto che mythos in italiano si traduce “narrazione”, ma nessuno narra più niente, nella convinzione che la cultura politica sia un vecchio arnese del Novecento.
Cosa pensi dei distretti industriali?
I distretti sono una delle tante forme di organizzazione della manifattura. Possono essere utili in una prima fase, ma alla lunga producono nanismo sia produttivo che culturale.
Qual è il tuo punto di vista su temi come la ricerca sulle staminali, l’eutanasia, la liberalizzazione delle droghe leggere, le adozioni per coppie omosessuali, l’abrogazione del Concordato e qual è il valore del termine laico in politica?
Laicità significa innanzitutto non fare di tutt’erba un fascio. Si può essere a favore dell’eutanasia, ma non delle nozze gay. In politica la laicità è una precondizione, come l’onestà. E chi diffida del “partito degli onesti” non può che diffidare di un “partito dei laici”. Quanto al Concordato, probabilmente andrà superato, anche per l’evoluzione in atto del cattolicesimo (e in proposito ti rimando al dossier che abbiamo pubblicato nel numero di maggio della rivista, in particolare all’articolo di Paolo Prodi). Il che non significa che nel 1984 non ne sia stata opportuna la revisione, grazie alla quale non c’è più una religione di Stato, i preti non vengono più pagati con la “congrua”, e tutti i culti sono liberi ed eguali davanti allo Stato. Non dimenticare che ancora negli anni ’50, a Milano, il cardinale Schuster chiedeva l’intervento delle forze dell’ordine per reprimere il proselitismo protestante, e che negli anni ’60 Il Vaticano ottenne il divieto di rappresentazione di un dramma di Hochhuth per non turbare “il carattere sacro della città di Roma”. Ma soprattutto non dimenticare che la revisione del 1984 fu pensata anche in vista della fine dell’unità politica dei cattolici: non a caso venne responsabilizzata la Cei. Che poi la Cei, dopo l’effettiva estinzione della Dc, abbia saputo fare davvero il proprio mestiere è un altro discorso. Ma sul tema è appena uscito per Marsilio un volume a cura di Acquaviva e di Margiotta Broglio.
Riforma del titolo V della Costituzione: quali saranno a tuo avviso le implicazioni politiche a breve termine e quali gli scenari futuri plausibili, a più ampio raggio?
Sono molto convinto delle proposte avanzate l’anno scorso dalla Società geografica italiana: ventiquattro dipartimenti, ed eventualmente cinque macroregioni dotate di limitato potere legislativo e non di potere amministrativo. Vedo però che non vengono più sostenute neanche da quelli che le hanno formulate.
Se dovessi fare un’autocritica e un autocomplimento quali sarebbero?
Mi complimento per avere accettato, nel 1986, di andare al governo come sottosegretario alla Pubblica istruzione: rischiavo di diventare “la testa più lucida del Psi”, ed invece ebbi l’occasione per imparare a distinguere la politica dall’ideologia (e dalle chiacchiere). Sono invece pentito di essermi candidato, nel 1994, nelle liste di Mario Segni, e di avere per giunta scelto il collegio di Ischia-Pozzuoli, invece di restare nel mio feudo emiliano. Scommisi sul nuovo che avanzava, e mi resi conto che invece di nuovo c’era ben poco. E poi perdere in casa non fa mai piacere.
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