In “Sinistra! Un manifesto” (Einaudi 2023), Aldo Schiavone lancia la proposta di  “staccare…..definitivamente l’idea  di sinistra da qualunque idea di socialismo, con la quale ogni politica progressista si era più o meno identificata sin dalla nascita: un’idea che aveva ormai il sapore arcaico del ferro, del vapore e del carbone. E, di conseguenza, staccare l’idea di eguaglianza – che, se poggiata su nuove basi, mantiene, eccome, tutta la sua attualità – dall’idea di lavoro (e di socialismo); e la figura del cittadino da quella del lavoratore. Ricongiungere direttamente, in altri termini, sinistra e (nuova) eguaglianza, senza passare attraverso il lavoro e il socialismo: come non è stato mai fatto nella modernità dopo la rivoluzione industriale”.

Più avanti, Schiavone scrive pagine approfondite per mostrare dove l’eguaglianza della nostra epoca differirebbe da quella del passato. Un’eguaglianza che da una parte non può riguardare solamente il reddito, ma deve estendersi al piano etico e all’“insieme dell’umano”, come richiesto dal salto tecnologico che stiamo vivendo. Sono temi da lui affrontati in altri recenti contributi, e che meritano attenzione anche nella prospettiva di riprendere a parlare dei (e a ripensare i) fondamentali in modo più concreto e nello stesso tempo meno estemporaneo di quanto si faccia di solito. Ma si dovrebbe per questo svincolare la nuova idea di eguaglianza “dalle rovine del socialismo”?

Per rispondere, diventa inevitabile chiedersi cosa Schiavone intenda per socialismo. Da una parte, sicuramente, una idea ritagliata sulla lotta di classe dei lavoratori delle fabbriche del Novecento; dall’altra, ambiguamente, la vicenda della sinistra italiana nella seconda metà di quel secolo.

Il capitale, dice Schiavone, ha vinto la sua battaglia per avere “dissolto il suo antagonista storico” con l’immissione nei processi produttivi di tanta nuova tecnica da non aver più bisogno di gran quantità di lavoro manuale per realizzare profitti. Alla fine di una lotta durata più di un secolo, ci sarebbe stato insomma un vincitore e un vinto. Punto. Si rimuovono così dal quadro tutto ciò che è successo in termini di trasformazione dell’uno e dell’altro, il grande compromesso socialdemocratico, la mutazione di un popolo stremato dalla miseria in quello di una delle maggiori potenze industriali del mondo, l’articolazione delle classi sociali messe in evidenza (non con l’avvento della globalizzazione ma già dal 1973) da Paolo Sylos Labini, la compresenza di una disoccupazione consistente in alcune aree territoriali e segmenti sociali.

Alla estrema complessità di questo quadro, che non è crollato tutto insieme, in parte è ancora in piedi, e attende proprio per questo analisi adeguate dopo le ondate della globalizzazione della finanza e della innovazione tecnologica, corrisponde la povertà di una rappresentazione basata sullo scontro fra due soggetti immobili nel tempo. Lo diciamo noi che ci chiamiamo Mondoperaio. Nei suoi settantacinque anni di vita, solo nei primissimi tempi la rivista ha presupposto che il mondo del lavoro si esaurisse nella fabbrica. Ma ha forse per questo attenuato le sue battaglie per l’eguaglianza? I socialisti hanno forse per questo moderato le loro proposte di riforma (talvolta perse, ma non di rado vinte)?

In questo ambito della sinistra l’eguaglianza è da decenni sentita come un principio che va molto oltre la condizione operaia, dove comunque la dignità e l’eguaglianza sono ancora troppo spesso calpestate: si pensi alla sicurezza nei luoghi di lavoro. Su questo punto cruciale, raramente il movimento socialista si è fatto distrarre dall’ideologia nei suoi centotrenta anni di storia. Il che si spiega anche per la ricca e risalente tradizione del socialismo umanitario, che proprio in tempi di riscoperta di un’eguaglianza estesa all’“insieme dell’umano” ritrova un suo senso profondo. Se ci riferiamo al piano analitico, perché mai allora dovremmo considerare superato il socialismo per poter estendere l’idea di eguaglianza?

Ha invece senso parlare di “rovine del comunismo”, anzitutto sul piano analitico.  Non si può dimenticare la dura denuncia del rischio di “una politica che si inorgoglisce” che si ritrova nei programmi della SPD, al quale gli eredi del PCI hanno opposto superbe certezze esse sì crollate tutte insieme.

Il “manifesto” di Schiavone va preso perciò sul serio in riferimento ai problemi aperti sul fronte dell’eguaglianza. La storia, scrive, “ha sedimentato nel nostro Paese grandi strutture di diseguaglianza, che lo rendono estremamente fragile e che stanno compromettendo la sua vita civile e politica, e il funzionamento stesso della democrazia repubblicana”. Ma bisogna intendersi sulle parole, anche per non proiettare sul futuro l’ombra di rovine passate.

 

Cesare Pinelli